La seconda puntata, con focus sul periodo 2011-2020, della nostra rubrica in cui segnaliamo gli album con la migliore qualità percepita in fase di ascolto.

Album of the Ear è una rubrica che vuole segnalare e dare evidenza degli album che, nell’epoca della Loudness War, si distinguono per la qualità della produzione (scrittura, arrangiamento, registrazione, mix, mastering) e, in ultima analisi, per la qualità percepita in fase di ascolto. Prestiamo particolare attenzione al range dinamico (in breve: l’intervallo, misurato in dB, tra il valore minimo di ampiezza di un suono e quello massimo), aspetto cruciale tra quelli che fanno “suonare bene” un disco e che spesso viene sacrificato per far sì che la musica possa sentirsi forte (ma non meglio) soprattutto su dispositivi economici e contesti caotici.

Vogliamo segnalare quelle esperienze di produzione che scelgono di non piegarsi all’andazzo generale. Album che quando riprodotti su un buon impianto e con buone abitudini di ascolto, offrono esperienze impagabili.

Questo è la seconda puntata della rubrica, dove abbiamo selezionato 30 dischi da noi apprezzati e con buona qualità di (ri)produzione, con riferimento al decennio 2011-2020. La prima puntata, con selezione fatta sugli album dal 2000 al 2010, la trovate QUI.

Caratteristiche degli album scelti

I dischi scelti sono principalmente di genere rock, pop, indie (ok, non è propriamente un genere, ma ci siamo capiti) ed elettronica.
Abbiamo volutamente escluso dischi di musica classica e jazz perché in questi ambiti un buon range dinamico è la regola, e una selezione avrebbe poco senso. Allo stesso modo non saranno presenti live album perché vogliamo evidenziare le scelte di mastering – e più in generale di produzione – adottate per gli album in studio. 

Le scelte vertono principalmente su album ben accolti dalla critica o dal pubblico, ma abbiamo segnalato con piacere anche titoli fuori dai radar che riteniamo validi per contenuto e per qualità della produzione. 

Dal punto di vista del supporto, per ogni lavoro viene preso in considerazione esclusivamente il master destinato ai CD o alle piattaforme di musica in streaming. Per limiti tecnici di misurazione e per assenza di fonti informative affidabili, in Album of the Ear non prendiamo in considerazione il vinile, fatti salvi cenni per particolari album di cui è nota la qualità dinamica del master analogico. 

Non è una classifica, ma una lista di dischi ben suonanti che piacciono alla redazione. 

Caratteristiche sonore

Come anticipato in premessa, il range dinamico è l’elemento principe che ci ha guidati nella scelta. Sebbene il LUFS (qui trovate una buona spiegazione: Cosa sono i LUFS? Spiegazione della misurazione del volume | LANDR Blog) sia la misura standard attualmente più usata per misurare il volume di una registrazione, per i nostri scopi e per la facilità di lettura, nonché per la disponibilità di un ampio database di consultazione, abbiamo deciso di usare il valore DR derivante dall’utilizzo dell’algoritmo sviluppato dalla Pleasurize Music Foundation (ne abbiamo parlato qui).
In sintesi, questo algoritmo permette di misurare e fare una media tra le parti a basso volume e quelle ad alto volume in una registrazione, restituendo un valore medio di Dynamic Range (DR). Più alto è il valore, più l’album viene percepito come dinamico.
Nei generi presi in esame per questa nostra selezione, un disco è generalmente percepito in maniera dinamica quando il suo DR è almeno 8.

Per rendere più facile la comprensione, facciamo un paio di esempi. “Death Magnetic” dei Metallica risulta avere DR 3: è infatti un album comunemente riconosciuto come uno dei peggiori frutti della loudness war e molto affaticante all’ascolto. “Lateralus” dei Tool ha DR 10, risulta dinamico e sostenibile anche ascoltato ad alto volume.

Tuttavia esistono diversi casi di dischi ben suonanti che presentano un basso range dinamico. Questo generalmente è determinato in primis dal lavoro di scrittura e arrangiamento del brano. Una canzone ben arrangiata ha in linea di massima il giusto numero di strumenti che si dividono il brano a livello di timbro (giocando quindi sulla “voce” differente che si ottiene miscelando strumenti differenti), a livello armonico (suonando parti differenti e complementari) e ovviamente ritmico (ad esempio incastrando suddivisioni metriche differenti all’interno dello stesso groove). Una canzone ben curata sotto tali punti di vista avrà quindi buone chance di essere percepita come ben suonante anche nel caso di un master compresso (sempre entro certi limiti, chiaramente).

I dischi con un alto DR vengono valorizzati da un ascolto a medio/alto volume. Molto spesso infatti a basso volume sembrano essere smorti, non coinvolgenti (in inglese viene usato frequentemente il termine “dull”) ma prendono letteralmente vita quando l’ascoltatore alza il volume, evidenziando tutti i vantaggi di una registrazione dinamica. Tenetene conto quando ascolterete gli album di questa lista. 

Oltre al DR ci sono diversi aspetti che concorrono ad una buona resa sonora e ne abbiamo tenuto conto nella selezione di album che vi presentiamo. La sensazione di “disco che suona bene” è inoltre in parte soggettiva e influenzata da diversi fattori psicoacustici (propria sensibilità, impianto o dispositivo utilizzati, ambiente d’ascolto ecc.), sebbene il range dinamico sia una caratteristica sempre oggettivamente riscontrabile ed apprezzabile, soprattutto a medio/alto volume.

La lista è frutto delle preferenze espresse da ogni membro della redazione, su una selezione di album che nella nostra esperienza di ascoltatori abbiamo riconosciuto come ottimamente prodotti.

Alla fine della selezione troverete una playlist che comprende i brani consigliati per ogni album.


Danger Mouse & Daniele Luppi – “Rome” (2011, Parlophone) [DR: 8]

Daniele Luppi è compositore, musicista, arrangiatore e produttore. Diplomato al conservatorio, è una di quelle figure che si approcciano alla musica a tutto tondo. Grande appassionato di colonne sonore del cinema italiano degli anni 70 (patrimonio musicale tutto nostro, su cui ad esempio anche i Calibro 35 hanno costruito una carriera), Luppi esordisce a livello discografico con “An Italian Love Story” (2004, Rhino), in cui attinge a piene mani da quel mondo. Questo background è ben presente anche su “Rome”, disco nato in collaborazione con Brian Joseph Burton, meglio conosciuto come Danger Mouse, e in cui figura inoltre una coppia d’assi ospite: Jack White e Norah Jones. Luppi e Danger Mouse sfruttano intuizioni dal sapore morriconiano negli arrangiamenti ma lo fanno con un talento innegabile, senza che si abbia la sensazione di un citazionismo spiccio e mettendo in piedi una raffinata impalcatura sonora.
Tra i musicisti che hanno partecipato agli arrangiamenti figurano molti italiani: Gegè Munari alla batteria, Luciano Ciccaglioni alle chitarre, Dario Rosciglione al basso, Antonello Vannucchi al piano ed altri strumenti, i Cantori Moderni Di Alessandro Alessandroni ai cori (a conferma dell’imprinting morriconiano che Luppi ha voluto dare al disco). Le idee melodiche funzionano: c’è la giusta alternanza tra i pezzi “orchestrali” e quelli più marcatamente rock/pop in cui gli ospiti si destreggiano con grande sicurezza. Jack White e Norah Jones offrono la voce su quasi la metà dei brani dell’album, compresi i due di maggiore successo (almeno a giudicare dai numeri di streaming): Two Against One (White) e Black (Jones). Il master non è così dinamico, ma neanche compresso. L’arrangiamento pulito e senza momenti di saturazione acustica aiuta e l’album si ascolta anche ad alto volume senza alcuna fatica uditiva.

Brano consigliato: Two Against One


James Blake – “James Blake” (2011, Atlas) [DR: 8]

James Blake, nel 2011, era il volto pulito della scena inglese ed era arrivato al successo dopo la pubblicazione di un paio di ep e un’eccellente cover di Limit to your Love di Feist. La reinterpretazione verrà riproposta nell’esordio, ma non sarà l’unico brano di successo commerciale. Anche perché l’omonimo del musicista e produttore londinese è considerato una pietra miliare negli ultimi tre lustri, perché ha proposto una versione del neosoul bianco, misto a UK garage e dubstep inglese, che è diventata un parametro e punto di riferimento per le produzioni successive. La scelta di effettare la voce, di puntare su beat ipnotici e fortemente emotivi, hanno contribuito alla fama di Blake che, qualche anno più tardi, affina ulteriormente la tecnica con il successivo “Overgrown”. Un’ulteriore chicca: nel disco è presente una seconda cover, The Wilhelm Scream, che è stato il singolo di lancio dell’album. L’urlo di Wilhelm (nome dell’effetto sonoro usato nel cinema quando un personaggio viene ucciso da qualcuno o qualcosa) è una rivisitazione di Where to Turn, brano di James Litherland, chitarrista e cantante, nonchè fondatore della band prog inglese Colosseum. Il plot twist? Il nome completo di James Blake è James Blake Litherland.

Brano consigliato: Limit to Your Love


Bon Iver – “Bon Iver” (2011, Jagjaguwar) [DR: 10]

L’omonimo di Bon Iver è, da più parti, considerato il miglior disco pubblicato da Justin Vernon. Tale riconoscimento è sfociato in importanti premi, come il Grammy come miglior artista e disco alternative del 2012, mentre Holocene è stata premiata come canzone dell’anno. Il tutto nonostante una virata evidente nello stile rispetto al precedente del 2008 (presente nel primo volume di Album of the Ear, ndr). Raccontare la nascita di questo lavoro, la sua complessità e varietà nei suoni, la scelta dei titoli che riprendono dei luoghi conosciuti dai Bon Iver non è semplice. Il disco si distingue per un elaborato melange di folk, post-rock, chamber pop, indie e soft rock, a cui si sovrappongo la presenza dei fiati, ottoni, vibrafoni e archi. Un lavoro orchestrale che ha consacrato il progetto Bon Iver.

Brano consigliato: Holocene


Nicolas Jaar – “Space Is Only Noise” (2011, Circus Company) [DR: 10]

Produttore, compositore e musicista cileno-americano attivo dal 2008, Nicolas Jaar è una delle figure più interessanti della scena elettronica. “Space is Only Noise” è forse il suo capolavoro e il disco che ne decretato la fama internazionale dell’artista. Difficile catalogare questo album (Jaar stesso definisce la sua musica “blue-wave”). Prodotto dallo stesso Jaar, è un caleidoscopio di suoni di diversa natura: field recording di vita quotidiana, pianoforte, campionamenti illustri (tra cui I Got A Woman di Ray Charles), archi e una strana sfumatura di groove che si muove tra il trip hop e la house. Uno di quegli album “immersivi” che scegli sapendo che lo ascolterai dall’inizio alla fine immergendoti completamente nelle atmosfere che ti regala. Le tracce ambientali, molto dinamiche per natura, influenzano il valore di DR totale del disco, che risulta più alto di quello delle tracce più “ballabili” prese singolarmente, che si fermano a un DR 7. Tuttavia la musica elettronica richiede una certa compressione, è caratteristica del genere. E solitamente è anche ben tollerata in quanto tendenzialmente non sono presenti molti momenti saturi oppure strumenti come le chitarre elettriche con distorsore, che che creano maggior fatica uditiva in dischi con master troppo compressi.

Brano consigliato: Problem With the Sun


PJ Harvey – “Let England Shake” (2011, Island Records) [DR: 10]

Un disco che parla degli orrori della guerra e delle sue conseguenze sulle persone ma anche dell’amore/odio per l’Inghilterra. Un lavroro registrato principalmente in presa diretta in una chiesa nel Dorset, in 5 settimane. Una PJ Harvey che suona l’autoharp e decide di cambiare il suo modo di cantare per adattarsi ai pezzi, come se avessero vita propria. Già solo questo renderebbe “Let England Shake” meritevole di un ascolto. Ma poi ci sono le canzoni, e che canzoni! Ballate senza tempo, di una bellezza straziante e con un’intensa nota di malinconia che permea tutto il disco. Melodie nebbiose che viaggiano attraverso i secoli. L’inghilterra è la Madrepatria, ferita dopo le guerre mondiali, traumatizzata ma allo stesso tempo fiduciosa oltre ogni limite, come se la sua potenza coloniale fosse ancora al massimo. Una nazione gloriosa ma oramai in ginocchio, come un soldato durante i conflitti sanguinosi. Testi spietati, crudeli ma caratterizzati anche da un tocco di sarcasmo pungente (“What if I take my problem to the United Nations?” canta Polly, criticando il fallimento delle istituzioni e contemporanamente citando “Summertime Blues” di Eddie Cochran). La produzione a 8 mani (Flood, Mick Harvey, John Parish, la stessa Polly Jean) fa brillare ancora di più questo gioiello che ha vinto il Mercury Prize e che ha reso PJ Harvey la prima artista a vincerlo due volte (la precedente occasione è stata con “Stories from the City, Stories from the Sea” uscito nel 2000).

Brano consigliato: The Words That Maketh Murder


La Dispute – “Wildlife” (2011, No Sleep Records) [DR: 8]

“Wildlife” è il secondo album in studio dei La Dispute, pubblicato il 4 ottobre 2011 dall’etichetta indipendente No Sleep Records. È considerato da molti fan il miglior lavoro della band. Come genere, l’album si muove tra screamo, hardcore e post-rock. Dal punto di vista dei testi siamo di fronte a un concept album. La band ha infatti interpretato i pezzi come se fossero 14 brevi racconti di un ipotetico scrittore. I temi sono decisamente cupi: si parla di morte, di dolore, di rabbia e di disperazione. Jordan Dreyer, cantante della band, usa uno stile particolare in cui l’interpretazione “melodrammatica” si sposa perfettamente con i temi dei testi. Alterna lo spoken word e momenti più cantati, sempre mettendoci grande intensità. Per la registrazione e la produzione di questo disco, la band aveva sin dall’inizio le idee molto chiare su come avrebbe dovuto suonare e ha lavorato a stretto contatto con gli ingegneri del suono per ottenere il risultato prestabilito. In questa intervista del 2012, Dreyer dichiarò di aver voluto che l’album avesse il più possibile un suono naturale, senza alcun riverbero o altri artifici di produzione. In quest’altra splendida intervista (in cui trovate numerosi di dettagli sulla registrazione del disco) l’ingegnere del suono John Pedulla, conferma la volontà di Dreyer e ne sottolinea anche le straordinarie particolarità vocali. Ciò che apprezziamo particolarmente è proprio la “genuinità” di produzione: sembra quasi di essere a un live, senza troppe sovraincisioni, senza riverberi e senza artifici di post produzione. All’ascolto si ha la sensazione di essere nella stessa stanza con i musicisti che suonano dal vivo (ascoltate l’attacco di batteria, poi di chitarra e più avanti di voce e basso nella traccia scelta per la playlist, per crederci). Ogni strumento è ben distinguibile ma perfettamente integrato nell’insieme, dando la sensazione di un live in studio. È la stessa impressione che si ha con gli Shellac e in generale nella gran parte delle produzioni di Steve Albini. Risultato mica da poco, eh.

Brano consigliato: The Most Beautiful Bitter Fruit


Alt-J – “An Awesom Wave” (2012, Infectious) [DR: 8]

Album di debutto degli Alt-J, molto ben accolto da critica (con vittoria del prestigioso Barclaycard Mercury Prize) e pubblico e che ha acceso parecchi riflettori sulla band. Ad oggi rimane il loro lavoro più convincente. Dal punto di vista della produzione, è un album con un suono molto d’impatto. L’immagine sonora è ampia e ricca, la voce ben distinta, così come la sezione ritmica. I suoni di batteria in questo disco sono molto particolari per due motivi: 1) sono spesso giustapposti o alternati suoni veri di una batteria e pattern di una drum machine; 2) la batteria di Thom Green usata per la registrazione di questo disco non aveva piatti. In questo modo il produttore Charlie Andrew si è concesso la libertà di “spingere” sui compressori, per dare più impatto, senza dover combattere per la regolazione delle frequenze alte dei piatti di batteria, spesso problematiche da gestire. A questo link trovate un’ottima intervista al produttore.

Brano consigliato: Breezeblocks


Cigarettes After Sex – “I.” (2001, Spanish Prayers) [DR: 9]

Greg Gonzalez, fondatore e voce/chitarra dei Cigarettes After Sex, racconta che il progetto è nato nel 2008, ai tempi dell’università del Texas, in modo casuale “basically an accident, kind of an experiment“. La band di El Paso, dopo un periodo iniziale di gestazione e definizione del proprio sound, pubblica l’EP di esordio autoprodotto (e successivamente ristampato dalla Spanish Prayers) e che regalerà alla band texana un successo inaspettato e un contratto con la Partisan Records (Laura Marling, IDLES, Bombino, Fontaines DC e fautrice della ristampa della produzione di Fela Kuti), che le permette di pubblicare il full lenght di esordio omonimo nel 2017. La resa sonora, nonostante nasca come autoproduzione, è tutt’altro che domestica o artigianale e questo contribuisce qualitativamente all’impatto dell’EP nello scenario indie dell’inizio del secondo decennio del terzo millennio. Il lavoro si compone di soli quattro brani, tra cui la celeberrima Nothing’s gonna hurt youy babe (che su Spotify viaggia sui 230 milioni di ascolti, grazie anche al suo impiego in diverse serie TV tra cui Handsmaid’s Tale), proponendo un dream-pop, con accenni di shoegaze, dai toni romantici e notturni e con un’eleganza quasi jazz e una certa reverenza verso la chanson francese degli anni ’60.

Brano consigliato: Nothing’s Gonna Hurt You Babe


Swans – “The Seer” (2012, Young God Records) [DR: 10]

“The Seer” è stato registrato tra New York e Berlino e la produzione è stata possibile, come risulta nei credits, grazie alla vendita delle mille copie (firmate da Michael Gira) del live “We Rose from Your Bed with the Sun in Our Head”. Il dodicesimo lavoro in studio degli Swans ripropone buona parte delle canzoni anticipate nel live, dando loro una forma più evoluta e strutturata. Il disco, come da tradizione della band rock sperimentale, è un lavoro oscuro, claustrofobico e pesante per atmosfere e densità delle composizioni.
Le due ore totali sono il frutto, secondo le parole di Gira, di “trent’anni di riflessioni, esperienza e rappresentano il culmine di tutti i precedenti lavori degli Swans, che hanno contribuito a creare la base di “The Seer”. Ma il doppio disco è più della somma dei singoli elementi, anticipando quello che saranno i filoni dei successivi lavori dei cigni. L’album è un percorso oscuro, intenso e faticoso, tra rock sperimentale, drone, post rock, noise, harsh blue e art rock. Anche la scelta delle collaborazioni (Karen O, i Low, Akron/Family e la solita Jarboe) hanno contribuito, secondo le impressioni di Stuart Berman di Pitchfork, a “mostrare una grandiosità magistrale e un fascino ipnotico, elevando la depravazione squallida e raschiante delle fogne di Swans in un rumore stravagante e in scala cinematografica“.
La produzione, curata da Michael Gira con il mix di Kevin McMahon e il master di Doug Henderson, beneficia dell’ottimo valore di DR per far esaltare il contrasto tra i passaggi più soft, quasi folk del disco, e i momenti più rumorosi, saturi di chitarre distorte, in cui spesso gli Swans amano insistere. Proprio tali momenti sarebbero stati insostenibili per l’ascoltatore con un master poco dinamico.

Brano consigliato: Lunacy


Daft Punk – “Random Access Memory” (2013, Columbia) [DR: 8]

Un instant classic. Probabilmente l’ultimo lavoro del duo francese. Se così sarà, avremo poco da lamentarci: RAM è un canto del cigno magnifico. Pieno di ospiti di prestigio quali Pharrell Williams, Julian Casablancas, Panda Bear, Nile Rodgers, Todd Edwards, Giorgio Moroder, è un disco che, nel suo connubio perfetto di suoni creati con strumenti analogici ed elettronici, è praticamente un manuale di come si fanno mix e master che non scontentano nessuno, da chi ascolta su una economica cassa bluetooth a chi ascolta su un impianto Hi-End. Tutto è perfettamente bilanciato, non c’è un secondo di audio che non si possa definire mixato e masterizzato in maniera impeccabile. Le frquenze basse e sub-basse sono ben presenti ma suonano naturalissime e musicali, le frequenze alte sono dolci e non affaticano.
È un album di un significato enorme per chi come noi vede nelle tendenze da loudness war il male della musica riprodotta, perché sfata il mito secondo cui per avere successo oggi ci sarebbe necessariamente bisogno di dischi che suonano forte in radio: il successo di RAM, con DR 8, è certificato ovunque e sfata completamente questa credenza. Anzi, si può tranquillamente affermare che parte del successo di questo album deriva proprio da come suona dinamico, caratteristica spesso riconosciuta anche da ascoltatori non attenti a certi aspetti. La compressione c’è e in alcuni passaggi è anche ben accentuata, ma è usata come si deve e senza danneggiare la musica (e il nostro udito).
L’ingegnere del suono artefice di tale bellezza artistica e audiofila è Mick Guzauski, mentre il master è stato creato a quattro mani: in prima fase il mitico Bob Ludwig ha lavorato sui nastri analogici e creato poi una versione digitale ad alta risoluzione del master che ha fornito alla band; in seconda battuta la band ha quindi coinvolto Antoine Chabert per ulteriori lavorazioni e aggiustamenti.

Brano consigliato: Lose Yourself to Dance


Nick Cave & The Bad Seeds – “Push the sky away” (2013, Bad Seeds Ltd) [DR: 9]

Registrato in quello studio di registrazione favoloso che è La Fabrique, in una villa del 1800 a Saint-Rémy-de-Provence, in Francia, “Push the sky away” si caratterizza anche perché è il primo lavoro di Nick Cave dopo l’uscita dal gruppo di Mick Harvey, storico chitarrista dei Bad Seeds fin dagli esordi, e contemporaneamente per un’ospitata di Barry Adamson, anch’egli membro fondatore dei Bad Seed ma assente dai dischi dal lontano 1986. A parte queste informazioni interessanti ma un po’ fini a se stesse, il disco è di alto livello. Con un’atmosfera peculiare tranquilla, intimista, l’esatto opposto del precedente “Dig, Lazarus, Dig!!!” di 5 anni prima (ma anche del progetto Grinderman, conclusosi nel 2011 dopo due dischi). Le cose che colpiscono sono proprio suoni e arrangiamenti: eleganti, ricercati, capaci di entrarti dentro pian piano mentre Cave, sempre più crooner, la fa da padrone con la sua voce e la sua personalità straripante.
La produzione di Nick Launay è come dovrebbe essere: mai esuberante, mai in primo piano ma capace di esaltare musicisti e interpreti.

Brano consigliato: Higgs Boson Blues


Shellac – “Dude Incredible” (2014, Touch & Go) [DR: 11]

Non dovrebbero servire parole per presentare gli Shellac di Steve Albini, anche perché le poche necessarie le abbiamo usate nel primo articolo di AOTE per presentare l’album “1000 Hurts”. “Dude Incredible” è, ad oggi, l’ultimo album in studio pubblicato dalla band. La qualità è sempre molto alta, sia nel contenuto che nella qualità acustica. La solita straordinaria chiarezza e il solito straordinario calore analogico della strumentazione. Riproducendo un album degli Shellac su un buon impianto si ha sempre la sensazione di avere i musicisti davanti a sè. Fate caso a come suonano batteria, basso e chitarra, poi confrontate quei suoni con la maggior parte degli album rock usciti negli ultimi 10 anni. Sono rarissime le band, in questi territori sonori, che possono vantare un sound del genere.
“Dude Incredible” è stato ovviamente registrato e mixato in analogico negli Electrical Audio studios di Chicago, di proprietà di Steve Albini, e masterizzato negli studi di Abbey Road da Steve Rooke. Insomma, qualità assoluta dall’inizio alla fine, anche nella scelta degli studi.

Brano consigliato: Riding Bikes


Damon Albarn – “Everyday Robots” (2014, Parlophone) [DR: 10]

Esordio di Damon Albarn come solita dopo tanti e variegati progetti (Blur, Gorillaz, collaborazioni afrobeat con musicisti del Mali, del Congo, con Mychael Nyman, colonne sonore, opere teatrali, progetti particolari come London is the Place for Me), “Everyday robots” è un disco intimista, minimale, a tratti personale (Hollow Ponds) ma che trova il suo focus principale nella dicotomia natura/tecnologia, soffermandosi sulla crisi di identità che questo ventunesimo secolo ha portato, parlando di alienazione e di burnout tecnologico. Ma badate bene, Albarn non ha un atteggiamento da luddista, non c’è rabbia, non c’è risentimento. Ma malinconia, tranquillità, consapevolezza e un pizzico di rassegnazione. La tecnologia in questione non è solo quella dei pc e dei cellulari (“We are everyday robots on our phones, in the process of getting home (autonomous), looking like standing stones out there on our own. We’re everyday robots in control, or in the process of being sold (autonomous), driving in adjacent cars, ‘til you press restart” canta nella title track), ma anche videogiochi (vedi Hostiles) e televisione (“It’s hard to be a lover when the TV’s on, and nothing is in your eyes come” declama in The Selfish Giant).
I suoi testi ben si fondono con la parte musicale: le melodie vocali, le atmosfere, la produzione (il disco è prodotto dallo stesso Damon Albarn assieme a Richard Russell, proprietario della XL Recordings), quelle drum machine su cui si adagiano tappeti lo-fi, agrodolci, eterei, quasi sognanti, una musica triste ma confortante, vivida e cinematografica, evocativa. Nessuno ha ancora capito la scelta di inserire un pezzo come Mr Tembo, una canzone che parla di un cucciolo di elefante che il buon Albarn ha conosciuto in Tanzania e che segna il punto peggiore del disco, oltre che essere un oggetto totalmente estraneo. Ciononostante Damon Albarn però è un autore che sente sempre il bisogno di reinventarsi, di non stare mai con le mani in mani, e qui lo dimostra ancora una volta.

Brano consigliato: Lonely Press Play


Paolo Nutini – “Caustic Love” (2014, Atlantic) [DR: 9]

Il terzo disco del musicista scozzese nasce un triennio dopo il successo di Sunny Side Up, da cui parzialmente il lavoro prende le distanze e si concentra su atmosfere rock inglesi degli anni 70-80 (Joe Cocker, Rod Stewart), blues, soul, funky e brit rock. “Caustic Love” segna l’ulteriore passo avanti e l’ingresso nella maturità artistica di Nutini, che conferma Dani Castelar (REM, Editors, Snow Patrol, Jamie Cullum) come produttore, dopo averlo scelto come ingegnere del suono per il secondo disco. L’album, scritto in un periodo di detox dall’intensa attività di tour promozionale, è stato registrato in diversi Paesi, tra cui Eire, Uk e Spagna. Iron Sky è probabilmente la vetta artistica del talentuoso cantautore di Paisley, brano di forte impatto emotivo.
Quando si confronta la qualità acustica dei dischi pre anni 2000 con le produzioni successive, i primi tendenzialmente vincono a mani basse. Questo è dovuto sicuramente alla Loudness War, ma anche perché prima si usava registrare e mixare in studi prestigiosi, anche in più di uno, se si pensava che i brani del disco dovessero avere caratteristiche sonore che erano più proprie di uno studio piuttosto che un altro. E per far tutto questo c’era un budget che ora molte band contemporanee si sognano. Ecco, per questo “Caustic Love”, Paolo Nutini ha potuto disporre di un budget di altri tempi e ha potuto registrare questo disco in diversi studi di diversi paesi. Non solo, si è anche assicurato la collaborazione di co-produttori di primissimo livello come Leo Abrahams, Tchad Blake e Dave Sardy, sebbene il disco sia nato principalmente nelle sessioni di lavoro con i soli Nutini e Castelar a lavorare fianco a fianco.
All’ascolto “Caustic Love” colpisce per la chiarezza e l’ampiezza dell’immagine stereo e per un “calore” dal sapore analogico anni ’70 che lo rende davvero godibile all’ascolto. Per chi volesse approfondire, a questo indirizzo trovate un’approfondita analisi della strumentazione utilizzata in fase di registrazione e mixing, con le parole dello stesso Castelar.

Brano consigliato: Iron Sky


Chet Faker – “Built On Glass” (2014, Future Classic) [DR: 8]

Nick Murphy e Chet Faker sono due facce della stessa medaglia, ossia il cantautore e produttore australiano Nicholas Murphy. Nel corso degli anni quest’ultimo ha abbandonato e poi ripreso il nome d’arte e gioco di parole tra Chet Baker e “faker”. I cambi di nome non hanno però, sfortunatamente, giovato alla qualità dei dischi successivi e Murphy non è stato capace di bissare questo gioiellino d’esordio. A parte qualche fortunata collaborazione con Flume e Bonobo. In ogni caso “Built on Glass” è un lavoro che splende per freschezza neosoul, brio pop, prove vocali intense quanto delicate, godibilità delle composizioni e ispirazione per questo lavoro a cavallo tra elettronica (downtempo, trip hop), soul e pop. Murphy, oltre che polistrumentista e cantante, è anche produttore dell’album.

Brano consigliato: Gold


Asaf Avidan – “Gold Shadow” (2014, Telmavar) [DR: 10]

Cioò che colpisce subito di Asaf Avidan, nato a Gerusalemme nel 1980, è indubbiamente la voce. Grande estensione e potenza, con nette sfumature femminili, tanto che in alcuni passaggi sembra di ascoltare Janis Joplin. Dopo essersi costruito una discreta fama in Israele con la sua band The Mojos, verso la fine degli anni Duemila inizia a fare alcune date in Europa. Ma il vero boom per Asaf Avidan si verifica solo nel 2012, quando la sua Reckoning Song dal disco omonimo, viene scelta per un remix dal DJ tedesco Wankelmut che la fa uscire con il nome One Day/Reckoning Song (Wankelmut Rmx). Il brano raggiunge una forte popolarità prima in Germania e poi all’estero (Italia inclusa). Asaf Avidan diventa improvvisamente molto popolare in tutta Europa. Da qui la decisione di abbandonare i Mojos e mettersi in proprio. Esordisce quindi in solo con l’album “Different Pulses” (2012), forse il suo migliore, che però non includiamo nella selezione perché meno apprezzabile acusticamente del successivo – comunque buono – e da noi selezionato “Gold Shadow”, che presenta ottimi pezzi come l’opener, Ode To My Thalamus, My Tunnels Are Dark And Long These Days (che sembra perfetta per un capitolo filmico di James Bond) e The Labyrinth Song che, nella sua dimensione acustica, è forse quella che meglio valorizza la voce di Avidan (in tal senso consigliamo anche il bellissimo e acusticamente pregevole live acustico “In a Box ” del 2012).
Mixato da Tamir Muskat e masterizzato da Vlado Meller (uno che ha lavorato anche con Red Hot Chili Peppers e Korn) l’album presenta un DR 10, ed è un ottimo esempio, secondo noi, di come dovrebbe essere il master di un disco pop/rock oggi, per non scontentare nessuno.

Brano consigliato: Ode To My Thalamus


Jack White – “Lazaretto” (2014, Third Man Records) [DR: 10]

Jack White è un altro di quelli che non ha certo bisogno di presentazioni, essendo una delle personalità più in vista e influenti del rock degli ultimi anni. “Lazaretto” è il suo secondo album solista, uscito nel 2014. È un mix di blues, garage, country e hard rock. Forse più a fuoco del precedente “Blunderbuss” (2012), è un disco che mette in mostra la creatività e la sempre accesa ispirazione del musicista di Detroit. Le canzoni di “Lazaretto” sono ispirate da una raccolta di scritti che White aveva composto a 19 anni e ritrovato in soffitta. Ne viene fuori un disco molto godibile, anche grazie alla buona dinamica del master, dove emergono in particolare brani incisivi e coinvolgenti come la title track, Would You Fight For My Love?, High Ball Stepper e That Black Bat Licorice.
Nei dischi di White chitarra e batteria sono sempre molto potenti, ma la dinamica viene sempre preservata. Questo li rende perfetti per impressionare gli ascoltatori alla prova di un buon impianto Hi-Fi. “Lazaretto” è prodotto e mixato dallo stesso White e masterizzato da sua eminenza Bob Ludwig.

Brano consigliato: Lazaretto


Primus – “Primus & the Chocolate Factory” (2014, Prawn Song Records) [DR: 8]

“Primus & the Chocolate Factory” è praticamente un rifacimento traccia per traccia (o quasi) della colonna sonora del film del 1971 con Gene Wilder, ma nello stile dei Primus. L’album, che vede il ritorno dietro le pelli di Tim Alexander dopo la breve parentesti segnata da Jay Lane, mantiene tutte le caratteristiche principali della band californiana (bastano pochi secondi di ascolto per capire che si tratta dei Primus), ma con nuovi ingredienti e una nuova impalcatura sonora. A questa contribuisce il “Fungi Ensemble”, ovvero Mike Dillon e Sam Bass, già al lavoro con Les Claypool per il progetto Frog Brigade, i quali aggiungono allo spettro sonoro deliziosi e colorati innesti di vibrafono, marimba, tablas e cello. Ma è anche lo stesso drumkit di Alexander ad essere particolarmente ricco, con vari rototom , padelle e una steel tongue drum. Tutti elementi che contribuiscono a creare un suono unico e distintivo. Nelle interviste rilasciate prima e dopo l’uscita dell’album, Claypool ha sostenuto quanto il film fosse stato una parte importante della sua infanzia e quanto le atmosfere fossero adatte per lavorarci sopra musicalmente.
Per il tipo di sonorità, forse l’album – prodotto e mixato da Les Claypool, masterizzato da Stephen Marcussen – avrebbe beneficiato di una maggiore dinamicità del master, ma comunque il DR 8 di media non lo rende affaticante. All’ascolto risulta parecchio piacevole la definizione cristallina degli strumenti che insistono maggiormente sulle alte frequenze come vibrafono e steel drum, che contrastano, ma al tempo stesso si legano benissimo, a basso e contrabasso di Les, creando una pasta sonora davvero particolare.

Brano consigliato: Golden Ticket


Iosonouncane – “Die” (2015, Trovarobato) [DR: 6]

Jacopo Incani, meglio conosciuto come Iosonouncane, è senza ombra di dubbio uno dei musicisti più interessanti del panorama pop (e dintorni) italiano degli ultimi 15 anni. Dopo l’ottimo esordio discografico con “La macarena su Roma” (2010), Incani giunge a quello che ad oggi rimane probabilmente il suo disco più apprezzato dal pubblico. DIE è effettivamente un disco maturo, dove l’esperienza accumulata dal musicista nella passata esperienza con gli Adharma e poi nell’ esordio da solista, trova una nuova via espressiva. In “Die” convergono pop, folk e sperimentazione, e quest’ultima vena è caratterizzata da un’elettronica ricca di orchestrazioni e da stratificazioni di voci e rumori.
Dal punto di vista concettuale, “Die” narra le vicende di una coppia. Lui è in balia delle onde e teme di non sopravvivere. Lei è sulla riva e osserva con ansia la tempesta in lontananza, sperando di riabbracciare l’uomo. L’album è la rappresentazione dei loro pensieri. Si compone di sei parti, con due pezzi corali (Tanca e Mandria) che aprono e chiudono il disco, e quattro pezzi centrali (Stormi, Buio, Carne e Paesaggio) che esprimono il punto di vista di lui e di lei.
Passando alle caratteristiche acustiche, questo disco rappresenta un’eccezione nella nostra selezione. Il valore DR si attesta infatti solo a 6 (ed effettivamente se ascoltato ad alto volume, provoca un minimo di quella che viene chiamata “ear fatigue”), ma non possiamo non evidenziare la perfetta stratificazione di suoni nelle scelte di arrangiamento. Suoni campionati e suoni di strumenti analogici si fondono alla perfezione e vanno a costruire un’immagine stereo incredibilmente ricca di dettagli. Ascoltando Stormi su un buon impianto è come veder apparire un quadro marittimo splendidamente dipinto che compare tra i due speaker. L’ampiezza e la nitidezza dell’immagine stereo e dei vari suoni di diverse frequenze che si stagliano distintamente in essa, è una meraviglia acustica. Prodotto e arrangiato da Jacopo Incani con il supporto di Bruno Germano e masterizzato dallo statunitense Carl Saff.

Brano consigliato: Stormi


Steven Wilson – “Hand. Cannot. Erase.” (2015, Kscope) [DR: 11]

“Hand. Cannot. Erase.” è il quarto album in studio di Steven Wilson. Dal punto di vista tematico, l’ispirazione parte dalla triste e assurda (ma vera) storia di Joyce Carol Vincent, una giovane donna che è stata trovata morta nel suo appartamento dopo quasi tre anni, senza mai nessuno che l’avesse cercata prima. A partire da questo episodio, Wilson scrive una serie di brani che ruotano attorno ai temi della solitudine e della finta e vuota connessione sociale offerta da internet e dai social media. Musicalmente è uno degli album più vari di Wilson, si muove tra elettronica, pop e progressive, con trame musicali magistralmente eseguite da musicisti di innegabile capacità come Guthrie Govan (chitarra), Nick Beggs (basso), Marco Minnemann (batteria), Adam Holzman (piano e tastiere), oltre allo stesso Wilson (voce, mellotron e chitarra). Tra gli ospiti si mette in luce la splendida voce di Ninet Tayeb sul pezzo Routine.
Steven Wilson è uno dei pochissimi che produce ancora dischi ragionando sulla destinazione di ascolto su buoni impianti. Il range dinamico anche questa volta si attesta su un valore da anni Novanta e questo va ad assoluto beneficio di chi appunto ascolta musica come si dovrebbe. Il mix valorizza ogni strumento e il range dinamico ampio permette ad ognuno di questi di essere riprodotto con pienezza timbrica e senza mai risultare stancante.
Produzione e mix sono totalmente a carico di Wilson, il quale non ha masterizzato l’album. Avete letto bene, non c’è stata la fase di mastering se non per gli ovvi adattamenti dovuti ai formati di destinazione. La posizione di Wilson sul tema è infatti piuttosto radicale e ben espressa in questa intervista:

Nessuno dei miei lavori è stato masterizzzato. I miei mix vengono trasferiti direttamente flat sul disco […] è incredibile quante volte, parlando con altri musicisti dico loro “non voglio che questo sia masterizzato”, la loro reazione sia scioccata. Ma poi capiscono. Perché dovresti aver bisogno di masterizzarlo? Se hai approvato il mix e pensi che suoni come dovrebbe, perché non rilasciare i brani così come sono? Ritengo che le persone siano state ipnotizzate negli anni dal fatto che gli ingegneri del mastering facciano qualcosa di magico, mentre penso che, in realtà, il mastering non sia necessario. Molti album stanno uscendo con trasferimenti flat e gli audiofili sembrano adorare i trasferimenti flat. Non c’è compressione della dinamica, non ci sono lavorazioni di cattivo gusto sulle frequenze alte e sul basso. Penso che stia diventando un po’ una tendenza, che ritengo positiva.

Posizione forse troppo radicale, ci sono lavori di mastering che hanno valorizzato tantissimo molti dischi, ma onestamente non ci sentiamo di condannare il pensiero di Wilson, anzi. Il problema, semmai, è che purtroppo non riusciamo a scorgere questo trend, che anche noi riterremmo straordinariamente positivo in confronto a quello di “schiantare” i master (questo sì, purtroppo un trend che va avanti da anni).

Brano consigliato: Home Invasion


Sufjan Stevens – “Carrie & Lowell” (2015, Asthmatic Kitty) [DR: 8]

Già dai primi ascolti risulta netta, tranchant, la distanza che separa lavori come “Illinois” (2005) oppure “The Age of Adz” (2010). Orchestrale e caleidoscopico il primo, alternativo ed elettronico il secondo. “Carrie & Lowell” è un bagno di umiltà, un rigetto totale della produzione elefantiaca di certe precedenti tracce, verso un folk asciutto, sintetico e condensato sul piano del dialogo voce – chitarra. Richiamando lo stile di alcuni magistrali autori (Simon & Garfunkel, Cat Stevens, Badly Drown Boy, Bonnie Prince Billy, Dylan) e mutuando piccoli stratagemmi da ognuno di essi, Stevens rispolvera il folk al confine con il dream pop, e sforna un gioiello toccante, etereo e carico di pathos e personalità. Non riscrive la regole del folk minimale, ma con questo disco ha dimostrato di saper variare la sua cifra compositiva, scrivendo brani che passano dalla semplice voce e chitarra, a canzoni con arrangiamenti e orchestrazioni eleganti.

Brano consigliato: Should Have Known Better


Childish Gambino – “Awaken, My Love!” (2016, Glassnote Records) [DR: 9]

Terzo album in studio per Childish Gambino, creatura musicale con cui si esibisce sul palco e pubblica Donald Glover, cantante, rapper, attore, produttore e regista americano. “Awaken, my love”, pubblicato per la Glassnote Records, è stato scritto e prodotto insieme a Ludwig Göransson, compositore e polistrumentista svedese che aveva conosciuto sul set di quella meravigliosa serie-fonte di meme che risponde al nome di “Community”. La particolarità di Awaken è, sin dalle prime battute, l’evidente cambio di rotta rispetto al lavoro rap-oriented dello splendido “Because the internet”. E questo stravolgimento sonoro, per quanto sia presente una componente hip hop, è la scelta di addentrarsi in territori rnb, soul, psych e funk, mettendo in risalto la capacità istrionica di Gambino come cantante. Ludwig Göransson, negli anni, si è affermato come uno dei maggiori talenti emergenti nell’ambito delle colonne sonore, arrivando a vincere un Oscar per Black Panther e ricevendo ulteriori candidature. Negli anni ha firmato le musiche di The Mandalorian, Creed, New Girls, Tenet, Oppenheimer, e Venom.

Brano consigliato: Redbone


Yawning Man – “Historical Graffiti” (2016, autoprodotto) [DR: 10]

Una delle gemme più belle della discografia degli Yawning Man, questo “Historical graffiti”, sottotitolato “The Ion Studio Sessions, Buenos Aires Argentina”, è un lavoro dalle tante sfaccettature. La psichedelia del deserto la fa da padrone, come al solito, ma gli ospiti (Sara Ryan al violino, Adolfo Trepiana alla fisarmonica, Malene Arce alle tastiere e mellotron) ben si amalgamano ai tratti lisergici e a quell’andamento avvolgente che rendono davvero magici i 5 pezzi del disco. È un lavoro “di genere” e anche di un genere nemmeno troppo di moda. Ma sono dettagli: il basso di Mario Lalli è sciamanico e detta legge e la fusione con la sognante chitarra di Gary Arce e la batteria di Bill Stinson ti porta in un viaggio estremamente emozionante. Il disco è stato registrato da Leonardio Checheccia e mixato da Mathias Shneeberger.

Brano consigliato: The Wind Cries Edalyn


Avenged Sevenfold – “The Stage” (2016, Capitol Records) [DR: 12]

Le selezioni di “Album of the Ear” sono frutto della preferenza personale dei redattori di EP, oltre che ovviamente dei criteri di qualità acustica dei dischi. In questo caso però, “The Stage” degli Avenged Sevenfold manca il primo criterio di cui sopra (pur se riconosciamo il buon livello del disco nel genere). Perché lo abbiamo incluso allora? Perché al disco è legato uno degli episodi più significativi nella dialettica legata alla cosiddetta “loudness war“. Bob Ludwig, una leggenda del mastering, e in questo ruolo ingaggiato dagli Avenged Sevenfold per l’album in oggetto, ha raccontato l’aneddoto in una intervista piuttosto nota e cliccata qualche anno fa negli spazi virtuali in cui si discuteva di loudness war.
Queste le parole di Ludwig a specifica domanda sul tema:

“La questione credo vada contestualizzata.
Alcuni clienti sembrano considerare “Death Magnetic” (album dei Metallica del 2008, tra i peggiori esempi di mastering schiantato tipico dell’era loudness war, ndr) come lo standard di riferimento con cui si misura tutto il resto, e quando notano che il proprio album ha un PLR (Peak to Loudness Ratio) di qualche dB inferiore rispetto a quello, pensano che il loro mix, in confronto, sia “dinamico”. Non lo è.
Per ” The Stage”, ho prima masterizzato l’album per renderlo simile a “King” (“Hail to the King”, album precedente della band, ndr), che era già molto più dinamico di “Death Magnetic”, ma la band aveva la sensazione che il notevole lavoro al mix di Andy Wallace non veniva valorizzato e perdeva alcuni dettagli che questa musica veloce e precisa richiedeva. Quindi ho masterizzato una versione che, come ai bei tempi, utilizzava la compressione solo come strumento artistico per aiutare ad amalgamare alcuni aspetti del suono, mantenendo comunque tutti i transienti. Erano entusiasti del risultato.
Qualche giorno dopo, con gran tempismo, sono tornati da me nervosi perché pensavano che il loro lavoro non sarebbe stato altrettanto impressionante quanto le registrazioni dei loro colleghi, quindi ho masterizzato una seconda versione, così da metterle a confronto. Erano ancora indecisi.
A quel punto gli ho mandato il video di Matt Mayfield sulla Loudness War e di lì a poco hanno deciso di utilizzare la mia versione con piena dinamica. Anche il singolo radiofonico non è stato “pompato” senza senso per la radio, come quasi sempre succede.
Sono stato entusiasta di partecipare a un progetto che dimostra ancora una volta che non si ha bisogno di un grande volume per vendere, ma solo di grande musica!”

Non serve aggiungere altro. Grande Bob!

Nel momento in cui scriviamo “The Stage” ha oltre 200 milioni di ascolti su Spotify. Alla faccia di chi pensa che i brani non vengono ascoltati se non “suonano forte”.

Brano consigliato: Angels


Frank Ocean – “Blonde” (2016, Boys Don’t Cry) [DR: 9]

Cosa si può scrivere del secondo lavoro del californiano Cristopher Edwin Breaux che non sia stato ampiamente e giustamente pubblicato dalla critica specializzata? Ocean è attualmente considerato uno degli artisti più importanti e interessanti del panorama americano e il suo nuovo disco viene atteso in modo spasmodico da tanti, complice anche la sua presenza all’ultimo Coachella. Classe 1987, nasce come cantante e rapper all’interno del collettivo ODD FUTURE (insieme a Tyler, The Creator, Earl Sweatshirt e altri), inizia come ghost-writer per John Legend e Justin Bieber e nell’arco degli anni crea un proprio stile e riscuote successo e ammirazione. “Blond(e)” è un lavoro che vede, solo tra i produttori, la presenza di James Blake, Rick Rubin, Malay, Pharrel e altri, oltre a Frank Ocean stesso. Lavoro monumentale per ispriazione, freschezza e qualità nella scelta dei suoni e nella capacità di songwriting. Un album di neosoul, psychedlic pop alla Beach Boys e Beatles, R&B contemporaneo, avant-pop, che si arricchisce di collaborazioni pregiate (oltre ai sopracitati, Beyonce, Andre 3000, Kanye West e la scelta di registrare in tre studi come Abbey Road, Electric Lady e Hanson. “Blonde” è un album che rappresenta uno dei picchi massimi della black music attuale ed è stato giustamente elevato al grado di termine di paragone.

Brano consigliato: Pink + White


LCD Soundsystem – “american dream” (2017, DFA Records) [DR: 9]

James Murphy è una delle menti più brillanti nella scena contemporanea e in redazione apprezziamo gli LCD Soundsystem. E il ritorno, a distanza di sette anni da “This is Happenings“, è stato capace di non far rimpiangere tutte le sue prove precedenti, condensando il meglio di ogni singolo disco e portandolo ad un livello di maturità inaspettato e così ben strutturato. Sono state pienamente rispettate le aspettative di noi estimatori, riuscendo ad alzare l’asticella della qualità senza snaturarsi. Il loro disco più maturo, tremendamente devoto al culto di David Byrne e del synth pop, ma combinando e sviluppando elementi che erano già presenti nella loro discografia. Suona come un disco degli anni ottanta newyorkesi, ma senza rilasciare quel sentore ammuffito di bieco revival spicciolo o manierismo da quattro soldi. Un disco assolutamente maturo, che riesce a focalizzare la carriera di Murphy e la porta sui binari giusti. Nonostante la durata, con una media brani che di solito si riservava a dei pezzoni in crescendo (come erano stati New York I Love You but You’re Bringing Me Down, All My Friends, Dance Yourself Clean), riesce nell’impresa di mantenere costante quel doppio binario, tra armonie più cupe e riflessive e brani melodici e con l’appeal per il groove ed il gusto bohemien che li aveva contraddistinti. Tracce come other voices o change yr mind sembrano b-sides di Stop Making Sense” dei Talking Heads, ma senza risultarne una copia sbiadita. Sono gli stessi LCD che rimettono in gioco la propria carriera, sfornando un lavoro che magari non avrà le hits da playlist alternative rock (le varie Tribulations, Daft Punk Are Playing at My House, Drunk Girls, On Repeat per intenderci), ma comunque offre tanta sostanza e qualità nella sua interezza. C’è anche lo spettro di David Bowie che aleggia per la produzione, lo stesso Bowie con cui aveva collaborato in “Blackstar”. C’è il post-punk mellifluo e dark, tra i The Sounds e i Depeche Mode, come in i used to, e la new wave galvanizzata degli U2 in call the police e nella conclusiva black screen.

Brano consigliato: oh baby


Anna Calvi -” Hunter” (2018, Domino Records) [DR: 8]

Anna Calvi è con pochi dubbi una delle cantautrici più interessanti degli ultimi 20 anni. Stimata e lodata da colleghi illustri come Brian Eno e David Byrne, la Calvi, nata da mamma inglese e papà italiano, esordisce discograficamente con il disco omonimo del 2011 che riceve ottimi apprezzamenti sia dalla critica che dal pubblico.
“Hunter” è il suo terzo disco e quello generalmente considerato migliore insieme all’esordio. Prodotto da Nick Launay (Nick Cave e Idles, tra gli altri, hanno lavorato con lui) e con mastering affidato a Bernie Grundman (uno che ha masterizzato pietre miliari – anche per resa acustica – come “Aja” degli Steely Dan e “Thriller” di Michael Jackson), contiene diversi brani ispirati, che anche acusticamente fanno una più che discreta figura. La chitarra di Anna Calvi (molto più rumorosa e selvaggia, rispetto ai lavori precedenti) e la sua voce – che alterna momenti quasi sottovoce a grandi aperture di volume – vengono entrambe ben evidenziate, rimanendo però sempre all’interno di un mix rispettoso di ogni strumento e anche dell’insieme. Don’t Beat The Girl Out Of My Boys è un brano con molte vibes da instant classic e chissà, con una macchina promozionale più potente alle spalle o magari in un’epoca meno sovraccaricata dal punto di vista dell’offerta musicale, sarebbe forse potuto esserlo.

Brano consigliato: Don’t Beat The Girl Out Of My Boy


Black Pumas – “Black Pumas” (2019, ATO Records) [DR: 9]

L’esordio (e per ora unico disco) del duo texano composto da Adrian Quesada ed Eric Burton si contraddistingue per la facilità di ascolto e la qualità del songwriting. Evitando la trappola del revival manieristico, i Black Pumas hanno confezionato un lavoro ispirato, godibile e che pone le canzoni al centro dell’ascolto. Forti dell’abilità di proporre degli istant classic premiati anche dai numerosi ascolti sulle piattaforme, come Colors, Fire e Black Moon Rising, i Black Pumas si collocano accanto ad altri esponenti che hanno saputo rivitalizzare un genere ciclostilato e atrofizzato come il blues-rock dalle tinte soul.
Il disco è stato registrato dal duo nello studio Electric Deluxe Recorders (Austin, Texas), che Quesada descrive così: “Di fatto è uno studio di registrazione, ma principalmente mi piace pensarlo come uno spazio creativo. L’energia creativa è la cosa che mi ispira di più in uno studio. Qui puoi semplicemente sederti e iniziare a fare musica senza dover aspettare quattro ore. Tutto è collegato e pronto all’uso, pèuoi entrare, accendere la strumentazione e cominciare subito a suonare. Questo è l’impulso alla base di gran parte del design e del layout dello studio” (fonte: guitarcenter.com).
Probabilmente il comfort di questo studio e la facilità con cui permette di suonare e provare, ha contribuito a dare quella spontaneità al disco che è impossibile non notare all’ascolto.

Brano consigliato: Colors


Khruangbin – “Mordechai” (2020, Dead Oceans) [DR: 13]

I Khruangbin (parola thailandese che sta per “aeroplano”) americani di Houston, Texas, sono una band che pesca da diversi contenitori: funk, soul, dub, psichedelia, musica etnica di alcuni paesi africani e funk thailandese (il cosiddetto thai funk). Il risultato finale è un caleidoscopio sonoro unico, fortemente vintage ma in qualche modo anche attuale, contraddistinto dal particolarissimo suono della chitarra di Mark Speer (se siete interessati QUI spiega molto bene come è arrivato a definire il suo stile). A questo si aggiungono le linee di basso sensuali di Laura Lee e il drumming ipnotico di Donald Ray “DJ” Johnson Jr.
“Mordechai” è il terzo album della band e quello che le ha permesso di comparire in diverse classifiche anche europee. Groove e incedere ipnotico sono le caratteristiche principali e in alcuni brani (Time (You and I), Pelota, So We Won’t Forget) la formula è particolarmente riuscita e coinvolgente, invitando facilmente al riascolto. L’album è particolarmente dinamico, segnando un valore altissimo di DR (13), con tutti i benefici del caso all’ascolto (che si evidenziano quando si alza il volume del proprio dispositivo/amplificatore). Si nota tuttavia un’immagine stereo, su alcuni brani, molto stretta e convogliata al centro: probabilmente una scelta della band. Prodotto e mixato dalla band stessa e da Steve Christensen. Non risultano invece informazioni sul mastering, potrebbe quindi rientrare in quel trend di album non masterizzati di cui Wilson (vedi scheda dell’album “Hand. Cannot. Erase”) si augura la crescita e la persistenza nel futuro.

Brano consigliato: Time (You and I)


clipping. – “Visions of Bodies Being Burned” (2020, Sub Pop) [DR: 9]

“Visions of Bodies Being Burned” è il seguito naturale del precedente “There Existed an Addiction to Blood”, a partire dalla copertina. Il lavoro del 2020, pubblicato per la Sub Pop, continua nel percorso di questo anti-rap (secondo alcuni avant-rap, ma le etichette lasciano il tempo che trovano), nel solco di una maggiore vena sperimentale e rumoristica rispetto al lavoro del 2019. Non lo consideriamo un passo indietro, se non su un piano delle canzoni e della melodia, perché TEAATB godeva di pezzi maggiormente melodici e strutturati nel senso della forma-canzone. “Visions”, invece, presenta maggiori momenti sperimentali, con passaggi glitch ed interpolazioni rumoristiche e piccoli dettagli di white noise (Wytchboard, Make Them Dead, Body for the Pile) e citazionismo pop (come nel caso di ’96 Neve Campbell, con i rimandi a Scream e Scary Movie).
Un disco che ha una sua dimensione sotto forma di racconto, con le canzoni che fungono da dispacci e brevi registrazioni di eventi, più che da canzoni vere e proprie. Per un disco di elettronica, un DR 9 è davvero elevato e il nome della band finisce per essere ironico nel suo contrasto (il clipping è ciò che si verifica quando i master sono troppo compressi e ci sono momenti che vanno oltre lo zero digitale).

Brano consigliato: Say The Name


Come già fatto per la prima puntata di AOTE, qui sotto trovate la seconda playlist Spotify con il profilo della redazione. Seguiteci e mettete like alla playlist. Anche stavolta ci teniamo a sottolineare come la scelta degli album sia stata sì dettata da preferenze di carattere personale per dischi che riteniamo meritevoli per contenuto artistico, ma la volontà precisa è stata sempre quella di premiare la qualità delle fasi che contraddistinguono la produzione. Pensiamo sia giusto riconoscere il valore di album in cui gli attori coinvolti (musicisti, ingegneri del suono, etichetta) hanno scelto di spendere tempo, volontà e risorse su qualcosa che premiasse la qualità in fase di ascolto.

Album of The Ear non si ferma qui. La prossima puntata coprirà il triennio 2020-2023 e nelle successive puntate le analisi diverranno puntuali sull’anno corrente.

Nel frattempo tuffatevi nei suoni degli anni ’10! Buon ascolto!

Per tutti i servizi di streaming consigliamo sempre di assicurarvi che nelle impostazioni abbiate selezionata la massima qualità disponibile per il vostro tipo di abbonamento e – importante – la normalizzazione disattivata.


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Sono 29 brani su 30 perché gli Shellac hanno scelto di non concedere i diritti alla piattaforma.


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