L'emo è davvero quella cosa terribile che ci ha raccontato MTV? Anche, ma senza focalizzarci su cosa fosse prima del boom commerciale, proviamo a vedere cosa è effettivamente successo dopo.

Nel passaggio dall’uso gergale a quello comune il significato di alcune parole viene stravolto. Prendiamo ad esempio il termine “nerd”: nato nelle high school americane come insulto verso una cerchia di persone con evidenti limiti di relazione al mondo esterno, in qualche modo e col passare del tempo si è trovato ad essere sdoganato con accezione diametralmente opposta, ovvero una sorta di etichetta, spesso auto-assegnata, che dovrebbe certificare la coolness di chi se la sente addosso.
Al termine “emo” è toccato il percorso uguale e contrario.

Vi racconto una storia. Qualcuno di voi ricorderà i Vanilla Sky, gruppo pop-punk di Roma che sull’inizio del nuovo millennio arrivò a godere di una certa visibilità grazie ad una cover di Umbrella, ma più probabilmente grazie al botto fatto dai Blink-182 e la conseguente corsa all’oro messa in piedi da tv e radio nel tentativo di cavalcare il momento.
Credo che una delle poche cose su cui tutti si possa essere d’accordo è che il pop-punk non abbia mai goduto di alcuna credibilità in qual si voglia ambiente musicale, specie nelle sue declinazioni locali, eppure dal palco i sopracitati tenevano ad intonare un piccolo jingle, che recitava: «Chiamami scemo, ma non chiamarmi emo».

Questo esempio dovrebbe chiarire due cose. La prima è che durante quel periodo di hype attorno al pop-punk, che ha portato nelle orecchie del pubblico generalista uno stuolo di epigoni dei Blink, si è iniziato ad associare a quel suono e quei gruppi l’etichetta emo, come fosse una parola nuova (qui è dove vi ricordo che, ad un certo punto della vostra vita, la sigla ufficiale del campionato di Serie A è stata I just wanna live dei Good Charlotte).
La seconda è che quella repentina esplosione del genere portò ad un crollo così verticale nella qualità della proposta musicale associata dalle masse al termine emo, che prenderne le distanze con sdegno era un modo per ripulirsi e darsi un tono anche per chi, a conti fatti, aveva una cover di Umbrella come punto più alto della propria carriera.

Questo non è emo, siamo tutti d’accordo

Lo scopo di questo articolo però non è quello di fare emosplaining (Nota: questa parola potrebbe non esistere) e tornare sulle origini del movimento per sconfessare la misconcezione che se ne è avuta nei primi ‘00, ma piuttosto provare a ragionare su quel che è successo dopo MTV e l’annesso stigma di massa. Per rendere il pezzo fruibile, però, una piccola introduzione diventa necessaria.

La storia dell’emo

No, scherzavo, non ho intenzione di andare così tanto sul didascalico, ma credo che per il discorso che voglio fare sia importante sottolineare come l’emo sia stato, praticamente da subito, un genere piuttosto variopinto in termini di suono, che trovava la sua definizione più a livello concettuale e di appartenenza, che non nelle caratteristiche musicali dei dischi cui si attribuiva questa etichetta. Già sul finire degli anni ’90 infatti lo spettro di possibilità per un disco emo poteva essere davvero ampio: c’era chi manteneva nei pezzi la semplicità strutturale del punk-hardcore e chi si apriva a soluzioni più ampie e “ricercate”, chi si affidava ad un cantato pulito e chi preferiva gli scream, chi inseguiva melodie più catchy e chi, invece, provava a rendere la propria musica meno accessibile possibile. Insomma: tutto e il contrario di tutto.

Di questo mare magnum, solo una piccola parte si ritrovò all’improvviso sotto i riflettori delle masse ed era quella più accessibile ai giovanissimi. Una generazione di teenager che, accalappiata dal pop-punk di cui sopra, provava ad espandere i propri orizzonti musicali verso suoni se vogliamo più “ruvidi”, ma che mantenessero al centro contenuti a loro vicini. Una sorta di mostro di Frankenstein capace di fondere gli scream e i breakdown presi dall’hardcore e dal metal ai temi pilastro dentro un episodio qualsiasi di Dawson’s Creek.

Ecco, la cosa che rende l’emo peculiare, forse, è il fatto che la corrente che nei primi anni ’00 ha trovato il favore del pubblico generalista e la grande rilevanza mediatica sia riuscita a minare in toto la credibilità del genere, senza nessun distinguo. Un destino che non è toccato ad esempio al metal, al punk o al rap. In quei casi, anzi, la reazione al successo commerciale è sempre stata quella di dissociare chi lo aveva raggiunto dal genere, come non fosse eventualmente più degno di esserne rappresentante. In questo modo si riusciva a cementare la fanbase attorno all’etichetta di cui si volevano tutelare l’immagine e l’identità, buttando idealmente fuori chi ne aveva sporcato il nome. “Death to false metal” era uno slogan piuttosto usato negli anni ’90, come moto reazionario a tutto quello che in qualche modo stava trovando consenso fuori dalla nicchia, mentre oggi nelle interviste ad artisti hip-hop italiani è molto comune la tendenza a voler segnare il confine tra quello che è davvero RAP e quello che invece deve essere considerato POP, proprio perché l’appartenenza ad una cultura di nicchia è tuttora molto rilevante per il pubblico del genere.

Se vi interessasse approfondire, un buon punto di partenza è l’intervista di Dikele a Fedez, che nel suo essere un pessimo prodotto giornalistico è tuttavia molto utile a chiarire il concetto.

Touche Amore – foto di Chey Rawhoof

Con l’emo, al contrario, c’è stata una vera e propria corsa ad abbandonare la nave che ha investito tutto, dall’etichetta emo, appunto, ai riferimenti culturali extramusicali che le gravitavano attorno. Intendiamoci, non si tratta solo della sparizione dei ciuffi dalla fronte di musicisti e fan, ma del fatto che ad esempio la quasi totalità dei brand di vestiti associati al fenomeno sia sparita, così come sono spariti myspace e netlog, i social network che contribuirono ad alimentare il boom. Tutte cose di per se stesse non negative (eufemismo), che però hanno di fatto mandato il genere in crisi.

Veniamo al punto: come siamo messi oggi?

Sono passati una quindicina d’anni dalla caduta dell’impero emo, se me lo lasciate definire così, un tempo sufficiente a permettere di rialzare la testa a chi ne ha fatto parte e mettere in moto il classico meccanismo revivalista che, prima o dopo, consente un ritorno di fiamma a quasi tutto. Sono iniziate le reunion, di cui la più grossa è indubbiamente stata quella dei My Chemical Romance nel 2020, ma che hanno coinvolto davvero tantissimi gruppi del periodo che, come ragionevole pensare per un genere caduto in una crisi così profonda, avevano finito per smembrarsi.

Effetto collaterale, se vogliamo definirlo così, è il fiorire di concerti per gli anniversari dei dischi “played in its entirety” e di festival che hanno come unico selling point il rimettere su un palco il 2002, trovando perfino divertente calcare la mano con titoli tipo “When we were young”. Operazioni di cui mi è difficile negare la profonda tristezza, ma che avrebbero senza il minimo dubbio i miei soldi non ci fosse l’oceano a dividerci.

Ancora una volta però questo fenomeno riguarda soprattutto quel filone che fece la fortuna e la disgrazia del genere all’epoca. Credo sia invece più interessante provare a dare un’occhiata a quello che è successo fuori da quella bolla, sottotraccia, in una scena che pian piano è tornata nella sua dimensione originale e che ha ripreso a far uscire gruppi e dischi interessanti, che potrebbero ridare un po’ di freschezza e visibilità al genere.
Per farlo provo a segnalare cinque dischi (+1) usciti negli ultimi cinque anni, di cui magari non avete sentito parlare e che possono aiutare a farsi un’idea di come stia sia l’emo oggi.

You’ll be fine” – Hot Mulligan (2020, No Sleep Records)
Arpeggini che rimandano diretti al midwest emo, intrecci vocali serrati e ruvidi e un generale senso di urgenza, simile a quello di chi vuole comprimere un concetto elaborato dentro ad un tweet. A volte non è chiaro da subito, va riletto più volte e non è immediato capire dove voglia andare a parare, ma facendo uno sforzo nella direzione della comprensione si arriva col dar loro ragione. Nel 2023 sono usciti con un disco nuovo, ma questo è meglio.

Brave faces, everyone” – Spanish Love Songs (2020, Pure Noise)
Di matrice decisamente più punk-rock, come suoni e struttura dei pezzi, i dischi degli Spanish Love Songs sono materiale perfetto per raccontare una generazione che ha più di un problema nel vedere il bicchiere mezzo pieno. “Schmaltz” (2018) è altrettanto bello, nel caso voleste approfondire.

Illusory Walls” – The World Is a Beautiful Place & I Am No Longer Afraid to Die (2019, Epitaph)
Questi, di cui vi chiedo solo di non farmi riscrivere il nome, sono con ogni probabilità considerati la cosa più significativa successa all’emo negli ultimi dieci anni, sulla base di un primo disco meraviglioso che si chiama “Whenever, If Ever” (2013). Dopo un paio di passaggi a vuoto, almeno per me, nel 2019 hanno sfornato un altro grande disco che, sebbene sia il meno immediatamente accessibile tra quelli di questa lista, è forse quello che può dare di più sul lungo periodo.

The Worlds Is… @ Epic Problem 6.21.13-75 – foto di Nicole C. Kibert/elawgrrl.com

Never Before Seen, Never Again Found” – Arm’s Length (2022, Wax Bodega)
Uscito sul finire del 2022, il debutto degli Arm’s Lenght è un esordio che lascia abbastanza in un angolo la volontà di dire qualcosa di nuovo e si concentra sul dire qualcosa di bello. Per farlo non sbaglia nulla, dai suoni alle melodie, e va abbastanza dritto dall’inizio alla fine senza lasciarti mai la spiacevole sensazione di dover pensare a dove avevi già sentito qualcosa di simile. Il primo singolo, Object Permanence, è forse il miglior pezzo in assoluto nei cinque dischi della lista.

Suicide and Sunshine” – Trophy Eyes (2023, Hopeless)
È appena uscito, quindi la mia valutazione è figlia del fatto che non stia ascoltando altro da un mese abbondante. Non so dire se e quanto longevo sarà, ma al momento in cui scrivo è il mio disco dell’anno per il 2023. È un lavoro che per atmosfere e suoni tende a spaziare più di quanto si sia abituati nel genere, aiutato dalla gamma di possibilità vocali del cantante, ma che non risulta per questo confuso o barocco. È un po’ come quando vai a Napoli: ci sono ottime pizzerie e ottime friggitorie. A volte trovi un posto che fa bene entrambe le cose, ma non vuoi certo ti metta le patatine sulla pizza. Vero? 

Parliamo un po’ della situazione italiana

Fino a qui ho provato a raccontare il quadro globale, ma può valere la pena spendere due paroline guardando in casa nostra.

Da un lato l’esposizione mainstream dell’emo da noi si è tradotta nello sdoganamento di alcune delle espressioni musicali meno giustificabili della nostra storia (non sto a citare i nomi, tanto li sapete), accentuando esponenzialmente la terribile percezione che si è avuta del genere in Italia. Dall’altro lato, però, c’è un gigantesco elefante nella stanza di cui si parla troppo poco: “Sfortuna” dei Fine Before You Came (2009, La Tempesta) a conti fatti ha causato più danni della grandine. Intendiamoci, per chi scrive resta un disco clamoroso e fondamentale, ma ha purtroppo calcificato la scena nostrana attorno ad un’idea di suoni e di testi. Non solo per l’uso dell’italiano e di alcune soluzioni nelle linee vocali, ma anche e soprattutto per la ricerca di una certa poetica del quotidiano di cui i FBYC hanno saputo fare una pregevole cifra stilistica, ma che poi riproposta ad oltranza da chi è arrivato dopo ha finito per risultare forzata se non addirittura ridicola.

Probabilmente oggi gran parte della scena gravita attorno a To Lose la Track. L’etichetta ospita tra le sue fila il miglior gruppo emo italiano a mio insindacabile giudizio e continua a tenere attivo il giro con eventi sempre belli, partecipati e con prezzi onestissimi (ormai una rarità per i concerti), ma ha un roster che soffre un po’ di quella omologazione che lamentavo prima.
Per provare a spaziare, quindi, anche qui segnalo tre dischi recenti e in italiano, che però hanno provato a percorrere una strada diversa per l’emo nostrano.

Di tutte le cose che abbiamo perso e perderemo” – Quercia (2019, autoprodotto)
Dopo un esordio dai toni più tradizionalmente emocore, i Quercia danno una bella sterzata verso l’hardcore facendo per quanto mi riguarda anche un deciso passo avanti nella capacità di scrittura dei pezzi. Due mosse per tirar fuori il miglior disco HC italiano degli ultimi anni, quantomeno per chi scrive, e per farsi perdonare l’aver scelto l’ennesimo moniker monolitico e scritto tutto maiuscolo di cui è infestata la scena di casa nostra.

Niente di speciale” – Elephant Brain (2020, Libellula Music)
Primo disco per questi ragazzi umbri. Forse non sarà davvero niente di speciale, ma mi ha colpito da subito per le tante piccole cose al posto giusto che hanno saputo metterci dentro. Ci ho trovato molta cura nelle soluzioni di chitarra e di batteria, così come nei riferimenti a cui attinge. Tanti particolari che colorano i pezzi senza zavorrarne il tiro, che viene fuori sempre benissimo. Nel 2022 sono usciti con un secondo disco che amplia ancora di più il loro panorama, ma forse perde qualcosina in termini di dettagli.

Unisono” – Winter Dust (2023, Voice Of The Unheard / Time As A Color / Dingleberry / Shove)
Tra tutti i dischi che sto citando in questo articolo, questo è probabilmente quello che rappresenta meglio tutta quella corrente dell’emo più imparentata con il post-, che si tratti di post-rock o post-hc. Il cantato in italiano si fa apprezzare per la capacità di trasferire testi personali e mai banali, probabilmente vero cuore del disco, e la scelta dello scream, che può sembrare controintuitiva per la comunicabilità delle parole, diventa invece un valore aggiunto al loro significato.

Winter Dust (grazie alla band per la foto!)

Ehi… prima avevi detto 5 dischi +1, ma ne hai citati solo 5!

Qui è dove mi faccio definitivamente odiare da un sacco di persone, ma se dovessi indicare una delle cose più interessanti successe all’emo post 2010 andrei dritto sulla trap. Intorno al 2016 infatti c’è stata una manciata di giovani artisti hip-hop americani che, nel boom che il genere stava vivendo, ha iniziato ad usare pezzi iconici dell’emo (American Football, Brand New, Mineral…) per le campionature delle proprie basi.

Per quanto si tratti di prodotti molto distanti musicalmente da quello a cui siamo soliti pensare quando sentiamo la parola emo, il lavoro di masticazione e digestione fatto in ambito trap è, a titolo personale, la rilettura più interessante che sia stata fatta del genere. Ne sono usciti pezzi che, pur riciclando intere melodie, risultano paradossalmente meno derivativi e più freschi, in grado di ricodificare in chiave contemporanea lo stesso spirito di “disagio e introspezione” che fu la scintilla dell’emo alle sue origini. Dovendo indicare un disco sarebbe semplice citare “Come Over When You’re Sober” di Lil Peep (2017, First Access Entertainment / Warner), che probabilmente è il più noto e rappresentativo di quanto sto dicendo, ma il mio preferito è “Reaper” di nothing,nowhere (2017, DCD2 Records).

Sono comunque entrambi esempi di un fenomeno che forse è stato l’unica vera “new wave” per l’emo post MTV. È durato pochissimo, ha sofferto di un numero intollerabile di feat. Travis Barker, ma sarebbe disonesto non riconoscergli una propria dignità.

Quindi, per chiudere, vi lascio qui una playlist di 10 pezzi, nel tentativo di rispondere alla domanda del titolo iniziale. Se con questo articolo sono riuscito ad incuriosire qualcuno, avere qualche traccia a disposizione per farsi un’idea più precisa e dare all’emo una chance forse è la cosa migliore.
E poi, detto tra noi, io adoro fare le playlist. Sono persino disposto a scrivere articoli per giustificarle.