Progetti e riflessioni, in bilico tra passato, futuro e rivoluzioni varie.

Erano gli anni delle parole pesanti, delle chitarre soniche, delle tabule rase elettrificate, dei giovani da scatarrarci su, del rumore e dei palazzetti pieni. Erano anni di dischi incredibili, che si intuiva sarebbero rimasti e che, infatti, ho ancora qui accanto e mi aiutano ogni giorno a camminare un po’ più dritto. In mezzo a tutto quel frastuono, a tutto quel dolore che ci veniva urlato in faccia ci fu chi, in quei frenetici ed esaltanti anni Novanta, decise di compiere un percorso del tutto personale e spiazzante. 

I La Crus misero da parte tutti i riferimenti su cui ci appoggiavamo per dar vita ad un progetto che ricalibrava la poetica verso le tinte più scure della canzone d’autore italiana, approfondendola, destrutturandola e reinterpretandola. Un manto nero si abbatté su noi rocker imberbi ed ingenui, uno scorrere di suoni elettronici ed industriali, blues da macine di Dio, notti di calore cupo e portaceneri pieni.

Mauro Ermanno Giovanardi (per tutti Joe) ne era la voce suadente e profonda e raccontava quegli anni in modo quasi confidenziale, ma con una potenza feroce. Già membro dei Carnival of Fools, una meraviglia di rock noir e luciferino, coi quali ci aveva trasmesso tutto il suo amore per Nick Cave e i Gun Club, per i Cramps e per Nick Drake, ha riempito i nostri walkman, zeppi di Sonic Youth e Nine Inch Nails, coi timbri di Tenco e di De Andrè, l’anarchia di Ciampi, la foschia di parole e metriche antiche ed insieme modernissime.  

Conclusa l’esperienza della band, tra il 2007 e il 2008, il nostro Joe (spero mi permetta di chiamarlo ancora così) coi suoi lavori solisti ha continuato a scavare a fondo nella forma canzone e nelle sue potenzialità. Una ricerca continua, col piglio dell’artigiano e la sfrontatezza dandy di un talento purissimo.

Oggi per Extended Play ci racconta un po’ di sé, dei suoi progetti e di come lui (e la musica) stanno vivendo questi tempi difficili. Una piacevolissima chiacchierata sentimentale sì, ma senza nostalgie e rimpianti, che ci consegna un artista dai mille volti e le mille curiosità. 

EP: Innanzitutto, partirei chiedendoti come stai? Come stai reagendo a questo lungo periodo di pandemia e restrizioni varie?

M: Eh, sono stati due anni davvero orrendi. Al di là della questione economica (che comunque come per tutti mette in crisi le tue certezze), quando da quasi trent’anni ti nutri dell’energia del palco, del corto circuito emozionale che si crea col pubblico e ti viene tolto tutto di colpo, è davvero assurdo. Come togliere di colpo la roba ad un tossico. Impazzisci. 
E in più con la consapevolezza che la nostra categoria non esiste, che a livello istituzionale siamo dei fantasmi. Che è stata la più danneggiata. 
Per la maggioranza della popolazione noi siamo hobbisti. Tecnici, fonici, elettricisti, tour manager, musicisti, facchini, maschere, insomma tutta la filiera che riguarda la musica, è stata abbandonata. È sembrato esistessero solo i baristi e ristoratori. 
Penso invece che la musica sia stata importantissima per un sacco di persone in questi due anni. Soprattutto nei momenti più bui del lockdown.

EP: Parlando di musica, recentemente l’hai osservata da un punto di vista particolare: sei stato parte della commissione che selezionava gli artisti per Sanremo Giovani. Che tipo di impressioni ti ha lasciato questa esperienza? Hai trovato più similitudini o più differenze se metti a confronto i sogni e le aspettative dei ragazzi che hai incontrato rispetto a quelle che avevano i giovani musicisti della tua generazione?

M: Penso che non si possano fare paragoni. Davvero. E non è retorica semplicistica. Bisogna iniziare a fare seriamente un distinguo tra il prima e il dopo avvento di internet. I social network hanno cambiato il mondo e i modelli culturali.
I ragazzi di oggi raccontano attraverso i loro occhi, il loro sguardo, le loro ambizioni, il mondo che stanno osservando. Ed è quello che è cambiato, non loro. E la musica contemporanea è lo specchio della nostra società, così come noi raccontavamo la nostra.

EP: È ancora possibile per un giovane artista nel 2022 promuovere la propria musica rimanendo fedele a se stesso, senza dover cedere ai compromessi di un mercato in crisi cronica? 

M: Un giovane artista nel 2022 ha un approccio completamente diverso. Non si pone questo quesito. Deve acchiappare più like possibili. È questo l’obiettivo, mica rimanere fedele a se stesso. 

EP: Nella tua figura hanno sempre convissuto romanticamente il ruolo dell’interprete, in un’accezione molto Sixties, ma anche quello dell’autore a tutto tondo. Non ti pare che uno dei problemi che porta con sé la dittatura dei talent sia, proprio, la messa da parte della figura di chi le canzoni le crea?

M: I talent hanno ammazzato la musica per come l’abbiamo vissuta noi. Immaginati Bob Dylan o Nick Cave se fossero dovuti passare attraverso le forche caudine di “Amici” e confrontarsi con Maria De Filippi. Un ragazzo di 15/16 anni, che da quando ne ha 5, è cresciuto con X Factor, ha interiorizzato questo modello. Pensa che questo è fare musica. Infatti da lì escono interpreti: Mengoni, Emma, Amoroso, Noemi. 
Da un po’ di anni a ‘sta parte, un bravo cantautore ha dovuto mettere da parte l’ambizione di salire sul palco, e dare i propri pezzi per gli interpreti che uscivano dai talent. Fortunatamente tutta la scena hip hop e la trap, che piaccia o meno, sta scardinando tutto questo. A loro modo sono il nuovo cantautorato. 

EP: Riallacciandomi al concetto di “generazione” non posso esimermi dal domandarti cosa ti ha spinto ad inventarti direttore artistico di un festival. “La mia Generazione Festival”, che si tiene ad Ancona, è giunto quest’anno alla sua quarta edizione e, nonostante il periodo complicato, sta continuando a dar luogo ad una commistione di artisti (e pubblico), in un interscambio di conoscenze e stimoli che trovo splendido. 

M: È stato l’incontro con Paolo Marasca, l’assessore alla cultura di Ancona, un “politico illuminato”, che ha avuto uno dei locali più belli della zona per più di un decennio, che mi ha invogliato a prendere in considerazione l’idea di pensare al festival, dopo avere sentito il mio disco. E nonostante lui mi abbia dato da subito carta bianca su tutto, mi confronto sempre con lui. 
È un’intesa nata da subito. Sto già lavorando da tempo per la nuova edizione. E la prossima sarà tutta rosa, tutta al femminile.

EP: “La mia generazione” in principio era, infatti, un disco. Qual era la tua idea nella realizzazione del progetto? Quello che più mi ha colpito fin dal primo ascolto è stato l’atteggiamento, per nulla nostalgico e ricco di voglia di dare nuova linfa ad un periodo di enorme creatività e fermento.

M: Esatto. Questa era l’idea iniziale. Stando ben lontano dalla retorica della nostalgia, del “come eravamo fighi”, ma di raccontare quella stagione che è stata unica, irripetibile. Ed essendo stato uno dei protagonisti di quella scena, mi sembrava bello farne un tributo sincero. Far diventare quei brani dei classici. È stato un lavoro durissimo. Era importante farne delle versioni che rispettassero lo spirito originale, ma farle mie. E dargli una nuova vita. 
Guarda, se avessi voluto fare un disco di cover, avrei detto ai miei ragazzi di imparare i brani e nel giro di una ventina di giorni, avremmo fatto il disco. Se avessi voluto fare un nuovo disco di inediti probabilmente ci avrei messo 6/7 mesi, per fare questo disco ci ho investito un anno e mezzo di lavoro. 

EP: Sei piuttosto attivo sui tuoi canali social, ne fai un uso spesso ironico e distaccato. Come credi che venga trattata la musica da quelle parti? Ha ancora senso raccontarla e raccontare ciò che le ruota attorno?

M: Ho un rapporto pessimo coi social network in realtà. Lo uso a scopo fondamentalmente antropologico. Che è, insieme allo studio della storia antica, la mia vera passione. Per capire dove sta andando questa società. Come un termometro. Facebook ad esempio sta diventando una cloaca. Un luogo abbastanza orrendo. Di frustrati incattiviti col mondo per la loro sconfitta con la vita. 
Spesso vedo che molti miei colleghi si prendono troppo sul serio. Io magari faccio un post per promuovere un mio spettacolo, un nuovo disco, insomma qualcosa aderente al mio lavoro, ma poi ne devo fare un paio ironici, sarcastici. Sdrammatizzare e usare l’autoironia è fondamentale. Sennò ci rimani sotto. E diventi una caricatura. 
La musica non può essere rivoluzionaria se gestita da Network e multinazionali. Se spacciata come qualcosa che nutre l’anima e venduta come una saponetta da bidet.

EP: Sono cresciuto con la musica, anche quella più strana e pesante, massicciamente presente su tv e radio. L’oceano di possibilità che offre la rete non mi pare sia in pieno riuscito a sostituire l’impatto che si aveva in passato, che ne pensi?

M: È proprio un altro modo di vivere la musica. Per la nostra generazione era appartenenza, era una divisa. Mi ricordo che quando ero un ragazzetto, ed essendo un figlio del proletariato senza troppi soldi, entravo in un negozio di dischi, e ne sceglievo una decina, poi sette, poi cinque, poi tre, e poi quel disco o quel paio di dischi con cui uscivo, arrivavo a casa e me li mangiavo. Avevo dovuto fare delle rinunce, per cui quei vinili erano importanti. Al massimo potevi registrarli e scambiare le cassette con i tuoi amici. O scambiarli dopo un mese o due, in Fiera di Sinigallia. 
Poi è arrivato internet, con Napster la possibilità di condivisione dei files.
Ora puoi accedere a Spotify ed avere tutta la musica che esce gratis. Accedere a certa musica non è più qualcosa di sacro, di rituale. Quando puoi avere tutto, poi non dai più importanza a nulla.

EP: Un altro progetto interessantissimo che ti vede coinvolto è “Decamerock” (accanto a Massimo Cotto e Chiara Buratti), uno spettacolo che miscela poeticamente teatro e musica, racconto e canzone. Fin dai tempi dei La Crus sei sempre stato coinvolto in contaminazioni col mondo teatrale e scenico (penso alle collaborazioni con Ferdinando Bruni e il Teatro Elfo Puccini di Milano). Dal palco come ti sembra che questo tipo di approccio al live vada ad impattare sulle emozioni del pubblico? Ricordo un vostro spettacolo al Leoncavallo con un intreccio di canzoni e materiale visivo che mi colpì molto, ti parlo del 2000 o 2001.

M: Quel concerto al Leoncavallo me lo ricordo come qualcosa di davvero speciale. Presentavamo Crocevia, e proiettammo il film allegato al romanzo uscito per Mondadori. Sai che da giovane stavo per mollare la musica per il teatro? Perché avevo avuto una storia con una ragazza che faceva la Paolo Grassi e mi infatuai, oltre che di lei, anche del teatro. Se ho continuato a fare musica, la “colpa” è di Giacomo Spazio che arrivando invece dal teatro sperimentale mi dissuase a fare questa scelta, anzi rilanciò dicendomi che dovevo smettere di cantare in inglese e iniziare a scrivere le canzoni in italiano. Per anni sono stato più a teatro che al cinema. Per cui poi fare un percorso trasversale è stato quasi naturale. Ma anche qui l’incontro con Gilberto Santini, ora direttore dell’AMAT è stato fondamentale per questo percorso. 

EP: Il concerto che ti ha cambiato la vita?

M: Patti Smith a Bologna. Allo stadio Dall’Ara. Era il 1979 ed avevo 17 anni. Tornato da quella esperienza, dopo qualche mese vendetti la mia bici da corsa per comprare un basso elettrico ed un amplificatore. Avere avuto 18 anni, intorno al 1980 e crescere a Milano, è stata una fortuna. Ho visto una marea di concerti pazzeschi. Citamene uno e l’ho visto. 

EP: Una volta, commentando un mio post su Instagram, mi raccontasti che dopo aver aperto la data milanese di Nick Cave (era il tour di “Let Love In” del ’94) lo portaste in giro per bar e locali della città. Come ti pare cambiata, negli spazi e nel respiro, la Milano di oggi rispetto a quella che mostrasti al buon vecchio Nick?

M: Le città vivono, pulsano e cambiano così come cambiano sia il costume che le persone. Sono quasi trent’anni da quella sera. Meno male innanzitutto che Milano sia cambiata, sennò sarebbe un dramma. Io ad esempio, dopo che per più di 20 anni sono uscito tutte le sere, ho conosciuto gente, posti, passando serate a raccontarsi sempre un po’ le stesse cose (soprattutto con i tuoi colleghi) sono più incline alla misantropia. Anche perché col lavoro che faccio, sei sempre circondato da tante persone, che da un lato è il valore aggiunto, ma poi quando torno a casa, preferisco il silenzio. 
Milano in sé, invece direi che è cambiata in meglio, sia da un punto di vista architettonico che sociale. Ha avuto un’evoluzione più mitteleuropea, più cosmopolita. E questo è assolutamente positivo, alla faccia di Salvini. 

EP: Nei primi anni ’90 lavoravi in uno storico negozio di dischi a Milano (Zabriskie Point). Che tipo di commesso eri? Non credi che la mancanza di uno spazio fisico abbia eliminato un aspetto che donava importanza e autorità alla musica?

M: Zabriskie era il negozio più cool di Milano. Vendevamo solo dischi di importazione, ed arrivavano due spedizioni alla settimana, una dagli Stati Uniti ed una da Londra. Io per certi versi ero un commesso atipico. E molto fazioso, direi. Anzi per certi versi anche un po’ uno stronzetto. Ma mai con snobberia, sempre con l’ironia come arma di conversazione e relazione coi clienti. 
Trattavo molto bene i clienti che ascoltavano Nick Cave, Neubauten, Cramps, insomma le cose che piacevano a me. Pigliavo per il culo gli strippati che compravano solo i singoli e i dischi della Sub Pop, ed odiavo i ragazzetti che bigiavano da scuola per venire in negozio a comprare i dischi di grindcore, obbligandomi a sentire pile di dischi orrendi e feroci alle 10 di mattina. Dopo che magari avevi dormito 3/4 ore e avevi girato più di mezz’ora per trovare parcheggio. Però è stata un’esperienza bellissima e sicuramente importante. Dal ‘89 al ‘95, dove contemporaneamente ero anche uno dei soci della Vox Pop. Periodo eroico.
Poi uscì il primo disco dei La Crus e la mia vita cambiò radicalmente.

EP: Compri ancora musica, in vinile o CD intendo?

M: Mmmhmmm, molto poca. Ma perché ascolto meno musica che in passato. Dopo aver lavorato in un negozio di dischi, fatto parte dell’etichetta indipendente più importante della prima metà degli anni ‘90, dove ascoltavamo centinaia di demo ogni mese, fatto e prodotto la mia musica per più di 25 anni e fatto migliaia di concerti, ascolto musica col contagocce. Solo quando sono ispirato. Anzi nella nuova casa dove mi sono trasferito da più di un anno, non ho ancora rimontato lo stereo.

EP: La cover ha sempre fatto parte del tuo modo di raccontarti. Che tipo di atteggiamento hai nel scegliere il pezzo e che cosa cerchi nell’interpretazione?

M: Ah, per ogni brano che ho reinterpretato, sono sempre e solo partito dal testo. Che deve appiccicarmisi addosso in ogni verso, in ogni parola. Che devo sentirmelo mio e poterlo cantare di pancia. E quando capita che c’è qualcosa che non mi torna, cambio pure le parole. L’ho fatto pure con brani di De André e Battiato. 
Senza paura.
Il segreto è capire e mantenere lo spirito originario, ma cercare di fartelo tuo. Come l’avessi scritto tu. Partendo dalla tonalità che mi deve calzare come un vestito sartoriale, ricostruendone l’immaginario e il clima che più mi si addice.
Insomma, la cover non è arte. Farne una versione sì. 

EP: Stai lavorando a nuovo materiale?

M: Certo che sì. A tre dischi diversi.
Il mio nuovo disco, in cui ho collaborato con un po’ di amici alla stesura dei brani e dei testi (Bianconi, Colapesce, Pippo Kaballà, Peppe Anastasi, De Rubertis, Cheope), con un suono più elettronico e contemporaneo rispetto ai miei dischi solisti fatti finora, ad un nuovo disco dei La Crus di inediti dopo 16 anni concepito durante il primo lockdown, e ad un album acustico dal suono western morriconiano tanto caro al mio sentire. 

EP: Volevo chiudere ringraziandoti pubblicamente perché grazie ai Carnival of Fools, una band a mio avviso epocale, ho ascoltato per la prima volta in vita mia un pezzo di Nick Drake, The Fly. Avrò avuto 15 o 16 anni. Lo so, non è una domanda, ma tant’è… 

M: Ottimo. Allora ti dico che sto lavorando anche ad un progetto di ristampa di un doppio cd con tutta la discografia dei Carnival of Fools.

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