In un sistema culturalmente sano, la presenza di cover band e tribute band dovrebbe essere minima. Non è così in Italia.

«In Italia non ci sarà mai la rivoluzione finché esisteranno le cover band.»

Giorgio Montanini

Questa riflessione, iperbolica e intrisa di caustica polemica politica, è frutto del pensiero dello stand-upper satirico Giorgio Montanini. Sul palco di Satiriasi nel 2014, il comico marchigiano usava la metafora dei musicisti delle cover band, considerati meri dopolavoristi, per lanciare un’invettiva di critica contro il capitalismo. Ovviamente si tratta di una posizione con forti implicazioni politiche, meritevole di essere ascoltata dalla voce dell’autore in questo eccellente pezzo di stand-up comedy italiana. Questo articolo non tratta il tema sul piano politico, in quanto non è il luogo adatto e non ci interessa farlo, ma lo vuole affrontare sul piano prettamente musicale e sociale.

Le cover band sono una presenza fissa nelle serate dal vivo. Quante volte abbiamo scorso un calendario, in cerca di un nome interessante o di un nostro artista di riferimento, per poi notare che la maggior parte delle date erano riservate a cover band? Questo avviene per motivi economici, ragioni di convenienza e aspetti culturali. E vedremo che sono estremamente collegati tra loro, al punto da reggersi a vicenda come nel Ponte autoportante di Leonardo da Vinci.

Prima di iniziare con l’analisi è necessaria una precisazione. Questo articolo non è contro le cover band, considerando che, per molti, possono essere apprezzabili come mero fenomeno di intrattenimento. Utili per passare una serata di svago senza rinunciare alla propria comfort zone di conoscenza musicale. Tantomeno si vuole criticare i gestori dei locali o muovere un atto di accusa verso la scelta di eseguire delle cover, come spiegheremo nel dettaglio.

Lo scopo di questo articolo è, invece, quello di evidenziare le difficoltà di molti ascoltatori nell’abbandonare la propria zona di comfort: questo crea il terreno fertile per il proliferare delle cover band, impedendo la creazione di spazi utili per le nuove band e artisti che vogliono proporre musica propria, come spiegheremo in seguito. 

Una premessa: a cosa servono le cover?

Solitamente ogni musicista inizia replicando brani che apprezza o con cui è cresciuto. Le cover sono il primo banco di prova, per allenarsi e per relazionarsi come band in saletta e successivamente davanti a un pubblico. Se pensate alle classiche assemblee musicali e concerti delle medie o superiori non potrete che convenire. Sono un test che permette di capire se un musicista sia talentuoso e/o abbia le capacità per passare ad altro. Scrivere pezzi propri non è una cosa immediata, richiede creatività ed una certa dose di talento compositivo. E non tutti ne sono capaci.

Suonare cover è spesso il modo più semplice per ottenere visibilità: proporre un brano famoso attira subito l’attenzione, è un dato di fatto. Non a caso i talent musicali o Sanremo hanno elevato la cover a cifra stilistica di un modello di intrattenimento. La cover come volàno e strumento di marketing: (ri)lanciarsi e farsi un nome o arricchire una tracklist di un disco. Infine rappresentano un momento, durante un concerto, utile per spezzare la scaletta dei pezzi propri e creare un momento diverso nel rapporto col pubblico presente. Infine c’è un marginale aspetto didattico. La cover permette di veicolare un brano e renderlo più appetibile per il pubblico. Le cover band, con la loro selezione mirata di pezzi storici, possono anche incuriosire un “neofita” ad approfondire quella canzone, cercando l’originale. E da lì, forse, con un po’ di fortuna, avviarlo verso una strada di ascolti di materiale originale e di nuove (ri)scoperte. Ipotesi che, tuttavia, resta una speranza che quasi mai porta all’approfondimento.

Nella nostra intervista di Luca Azzini a Mauro Ermanno Giovanardi, quest’ultimo, parlando delle cover dice:

«Ah, per ogni brano che ho reinterpretato, sono sempre e solo partito dal testo. Che deve appiccicarmisi addosso in ogni verso, in ogni parola. Che devo sentirmelo mio e poterlo cantare di pancia. E quando capita che c’è qualcosa che non mi torna, cambio pure le parole. L’ho fatto pure con brani di De André e Battiato. Senza paura. Il segreto è capire e mantenere lo spirito originario, ma cercare di fartelo tuo. Come l’avessi scritto tu. Partendo dalla tonalità che mi deve calzare come un vestito sartoriale, ricostruendone l’immaginario e il cima che più mi si addice. Insomma, la cover non è arte. Farne una versione sì.»

È un’importante sottolineatura di come la cover possa fornire un contributo importante a livello artistico, se proposta in un modo peculiare, diverso e personale (come ad esempio i Nouvelle Vague o la versione di Hurt proposta da Johnny Cash).

Realizzare una cover non è un obbligo di legge. Nel momento in cui si approccia all’esecuzione su un palco sarebbe il caso di domandarsi se ne valga veramente la pena. Le cover ciclostilate, senza personalità e delle mere copie-carbone, non apportano di per sé un contributo artistico. Anzi rischiano di essere anche brutte e di scarsa qualità, danneggiando l’umore dell’appassionato ascoltatore che valuterà l’esecutore in base al numero di stecche durante la realizzazione del brano. Hanno sicuramente più senso le cover reinterpretate, anche in maniera provocatoria o diametralmente opposta all’originale, se sono inserite in un repertorio vario e in mezzo a diversi pezzi propri. Perciò se volete suonare Stairway to Heaven e avete l’intenzione di “arrangiarla” o “migliorarla”, pensateci dieci volte. Ma non per il senso di sacralità o di intoccabilità di un brano, perché questo concetto in musica non esiste e tutto può essere ripreso e trasformato. Quanto perché non ce ne facciamo nulla della centoventesima versione identica di una pietra miliare. Abbiate il coraggio di provare a suonare pezzi propri.

In sintesi le cover band e le cover sono due fenomeni distinti e che vanno valutati in modo diverso. 

Le serate di tributo, in memoria di un artista recentemente scomparso o per celebrarne la grandezza in occasione di un anniversario, invece sono delle occasioni piacevoli e che rappresentano qualcosa che va oltre la semplice tribute band o serata di cover.

Come anticipato nell’introduzione, passeremo all’analisi delle tre tipologie di ragioni del successo delle cover band. 

Le ragioni economiche

I gestori dei rock club organizzano tante serate con le cover band e le tribute band per necessità e concretezza imprenditoriale. Sanno che queste serate garantiscono un afflusso di introiti e pubblico importante, senza l’incognita “pericolosa” dell’artista poco conosciuto o che non darebbe la sicurezza di determinate entrate. Non sono nelle condizioni di chiamare l’artista di punta, che faccia in una sola serata il picco di stagione e sia L’equivalente di uno spogliarellista in un circolo gremito di donne la notte dell’otto marzo. É doloroso constatare come molti locali puntino soprattutto sulle cover band e non abbiano grande interesse (o coraggio o amore per l’arte, lascio a voi le motivazioni) per riservare molti spazi alle band emergenti. Spesso sono pub o hamburgerie con un piccolo palco, dove difficilmente potrebbe esibirsi il grosso nome. Ma potrebbero ospitare band locali con pezzi propri e non lo fanno per i motivi citati. E i gestori sono portati (un po’ per necessità, un po’ per pigrizia o comodità) a crearsi uno zoccolo duro di clienti negli abitudinari delle cover band. Lo scopo dei locali, nei fatti, è spesso non fare cultura ma fare soldi. Sono delle imprese e non sono circoli Arci e le cover band e le tribute portano più soldi delle band con pezzi originali.

Perché si trovano un grande numero di tribute band dei Queen, AC/DC, Guns’n’Roses, Vasco Rossi, Ligabue, Beatles o Led Zeppelin? Se prendete i Queen e guardate sul sito di Ticketone vedrete che sono presenti, anche in questo circuito, tribute band di ogni tipo con biglietti con un costo superiore a quello di band originali e molto più meritevoli. E molto spesso la cover band viene pagata in visibilità e cena, a differenza della band underground che comunque richiede un piccolo compenso.


Il nome della serata con la tribute band degli Articolo 31 ha un significato ironico che era sfuggito agli organizzatori. Un po’ come il gusto musicale nella maggior parte di questi eventi.

Le ragioni di convenienza

Un altro punto riguarda il secondo tassello del lato dell’offerta di questo tipo di spettacoli. Esistono le cover band per una serie di motivi di convenienza. Il primo, come avrete intuito, riguarda la facilità di collocazione del prodotto musicale, del “format”, in quanto esistono numerosi spazi in ogni regione d’Italia che accolgono volentieri serate di questo tipo. A questo aggiungete il numero esorbitante di band che suonano ai matrimoni e altre feste, un po’ come le serate revival che sono spesso dei djset ad hoc per soddisfare la nostra fame di retromania. Le band propongono un repertorio di pezzi famosi e consolidati, il cui successo è più o meno certificato, perché ci sarà sempre un pubblico pagante attirato da questo tipo di ascolti. E questa relativa accessibilità permetterà alle cover band di fissare in agenda molti più spettacoli di quanti ne farebbero con una loro proposta originale. E spesso la proporzione è dieci a uno. La possibilità (se non la certezza) di guadagno è maggiore e, a volte, tristemente l’unica per alcuni musicisti. Che sia un ripiego o una preferenza consapevole e voluta, basata sulla voglia di suonare brani famosi e crearsi una entrata fissa, è una scelta che non ci è dato di commentare in maniera troppo severa.

La ragione culturale: la paura di abbandonare la propria comfort zone

Un pubblico meno abituato all’approfondimento musicale e poco predisposto alla scoperta di nuovi artisti preferisce le cover band, proprio perché sono più semplici da ascoltare. Il repertorio è conosciuto, non richiede un particolare sforzo di attenzione o un’apertura mentale tale da accettare l’idea di assistere ad uno spettacolo di cui si ignora la proposta. E che potrebbe risultare una potenziale perdita di tempo. Il timore di ascoltare qualcosa che non piace o che non si capisce spaventa, così come la considerazione che il proprio tempo sia troppo prezioso per sprecarlo in questo modo. Peccato che nello stesso lasso di tempo si finisca a passare la sera a guardare programmi di scarsa rilevanza alla televisione oppure scrollare in modo automatico la propria bacheca Facebook o Instagram. Riguardo a questo aspetto mi viene in mente un episodio a cui ho assistito a un concerto del duo (all’epoca, ora trio) Bachi da Pietra. In quell’occasione il chitarrista e cantante Giovanni Succi si complimentò con i presenti definendoli quasi rivoluzionari. “Perché oggi la rivoluzione la si combatte anche contro il divano e contro la pigrizia di restare a casa anziché venire ai concerti”. Il divano come catena verso la scoperta di nuovi gruppi e, soprattutto, come ostacolo allo svolgimento di attività che, nel bene o nel male, possono lasciarti un ricordo tramite la partecipazione attiva al momento.

Da un punto di vista artistico un palco vuoto e un palco con la peggior tribute band in circolazione si equivalgono?

Essere prevenuti, in ambito musica dal vivo, per tante persone è diventato uno standard. Andare al concerto di una band che non si conosce richiede un esercizio di paziente ascolto, prima di poterci formare un giudizio. Sembra quasi che il grande numero del pubblico abitudinario delle serate dedicate a tribute cover band, il pubblico pagante, soffra di una certa pigrizia mentale verso nuove scoperte apparentemente lontane dai propri artisti e suoni di riferimento. Una ragione implicita e inconscia è la volontà di vedere la cover band come surrogato o simulacro della band originaria. Perché non potrà più vederla dal vivo (un gruppo sciolto o un artista defunto), perché non suona mai vicino casa o per ragioni economiche (costi proibitivi per biglietti e pernottamenti). E quindi si accontenta di questa versione in replica, minore e fittizia, rispetto all’originale. Avete presente il pubblico che non si perde mai una tribute e che ascolta tantissimo Virgin Radio e il suo palinsesto ciclostilato? Lo stesso che su Facebook posta in sequenza solo i grandi successi del rock e che ha una playlist da pezzi che potrebbero sintetizzarsi come “Guitar Hero 1.0”. Questo tipo di ascoltatore dà l’idea di non voler abbandonare le proprie certezze sonore, col timore di sacrificarle in favore di qualcosa che sia oltre i propri territori conosciuti e definiti. Come se fosse necessariamente un ipotetico aut aut, anziché vederlo come un arricchimento o un allargamento delle proprie conoscenze musicali. Si potrebbe considerare una tendenziale paura di uscire dalla propria comfort zone, costruita dagli ascolti adolescenziali, dai grandi successi del passato e dai brani mainstream del presente.

Un argomento che abbiamo preso in considerazione nell’articolo Old but Gold, che pare confermare ulteriormente questa teoria.

La comfort zone sonora

Da cosa dipende questa difficoltà di espandere i propri territori? Dal background culturale, dalla scarsa propensione ad ascoltare qualcosa di nuovo e sconosciuto, dall’assenza di format educativi e di spazi musicali che siano finalizzati a far conoscere nuova musica? Dalla mancanza di strumenti culturali per scoprire nuovi artisti o generi? Certamente, ma non solo. Potremmo affermare che la scelta inconscia di ascoltare quanto è già presente nel nostro patrimonio musicale dipende anche da una voglia di certezze e di sicurezza. Insieme a una malcelata pigrizia. Facciamo affidamento sui nostri ricordi e sulla nostalgia, ripetendo anche il mantra della musica che “un tempo era meglio”. Pura retromania nostalgica, come spiegata da Simon Reynolds. Vogliamo andare alle serate tribute e cover band perché percepiamo una forma di controllo, che esercitiamo tramite la partecipazione attiva a un concerto ed alla condivisione di parole e suoni che conosciamo. Questa manifestazione di conoscenza ci gratifica e ci fa sentire esperti di musica, soprattutto agli occhi di chi non conosce quel brano, legittima il nostro expertise e ci esalta. Invece l’idea di metterci alla prova e avere coraggio, nell’ascolto a scatola chiusa di band e artisti, ci terrorizza. Ci spaventa l’idea di aver perso qualche ora. Oltre ad aver pagato prezzi modici (o addirittura nessuno, visto che spesso le band emergenti suonano gratis) e provare rabbia per quel furto conclamato. Un altro aspetto riguarda il singalong, il karaoke e il momento di socialità del pubblico generalista. Un punto sacro del pubblico delle serate di cover band, che nelle sue estreme conseguenze può portare addirittura al punto di rifiutare ogni proposta di originalità da parte delle band. Questo, in sintesi, il concetto spiegato in un episodio di un podcast di Todd Henry:

«Una cover band è un gruppo che suona musica di altri. La tipologia più estrema è la tribute band, che direttamente copia lo stile e la musica di altri musicisti nel tentativo di rendere omaggio alla loro arte. Ulteriori esempi più SOTTILI sono i tormentoni radiofonici del momento. Può capitare di sentire una di queste band dire, in modo quasi meccanico, “Ora suoneremo un nostro brano” e dal pubblico del club echeggerà una protesta collettiva. Perché? Perché nessuno viene a vedere una (tribute) band per ascoltare il repertorio originale di quella stessa band. Il pubblico prende parte a queste serate per ballare, divertirsi e ascoltare musica che conosce. Se vai a sentire una cover band sai in anticipo che avrai a che fare con sonorità familiari all’interno di uno spettacolo dance-friendly, con pochissime variazioni. Questa è l’aspettativa. Il programma prestabilito e atteso dal pubblico. Il marchio di fabbrica di queste serate e band, se vogliamo. Se una cover band tira fuori un brano originale, in mezzo al repertorio delle cover, sta infrangendo questa promessa in modo netto.»

In conclusione le tre macroragioni sono intrecciate tra loro e risulta anche difficile impostare o ipotizzare una gerarchia delle cause principali e quelle subalterne. I discorsi riguardano anche un piano sociologico, pedagogico, culturale e non solo musicale. Ma potremmo affermare che l’educazione di fondo, ricevuta in adolescenza, è una scriminante tra il buon ascoltatore e l’ascoltatore ineducato. Se i nostri genitori ci hanno svezzato con una varietà di ascolti, insegnandoci ad apprezzare tanti artisti differenti tra loro e se siamo cresciuti tra dischi e vinili in casa, è quasi scontato che questo interesse lo porteremo avanti.

La necessità di una inversione di tendenza

Vi sarebbero molteplici aspetti positivi generati da un radicale cambiamento. Occorre innanzitutto ipotizzare delle strategie concrete per invertire la tendenza? 

Non esiste una formula magica o il classico sistema farlocco che vedete in alcuni banner riguardo alla perdita di peso in una sola notte. Nella realtà dei fatti il discorso è complesso, la soluzione non può essere una e soprattutto il cambiamento non sarebbe rapido. Gli attori sulla scena sono tre: locali, band e pubblico. Il cambiamento deve interessare tutti, anche se in modo diverso e individuale. La certezza è che se continuiamo a preferire le cover band, nella scelta degli spettacoli, non si svilupperà mai quel sistema virtuoso capace di generare effetti positivi su più piani.

Una good practice del passato: il CBGB di New York

Uno di questi riguarda la possibilità di creare spazi idonei per lo sviluppo di una scena musicale. David Byrne, in “Come funziona la musica” descrive il caso dello storico locale CBGB e la sua fondamentale importanza come esempio di ambiente idoneo per far nascere una scena musicale. Nel 1974 Tom Verlaine (fondatore dei seminali Television) convinse il proprietario, Hilly Kristal, a lasciarli suonare materiale proprio dal vivo. Questo fu uno spartiacque in quanto fino ad allora erano state le cover band a garantire il maggior funzionamento del bar e della spillatura della birra. Da quel momento, invece, il CBGB rappresentò uno spazio in cui le band emergenti ebbero la libertà e la possibilità di esibirsi presentando le proprie canzoni originali senza grandi condizionamenti. In questo locale iniziarono a proporsi artisti della scena Newyorkese e non, come i citati Television, Patti Smith e i Talking Heads. Oltre alla scena Punk Rock, dai Ramones in poi. Le vicende del CBGB sono state narrate in un film del 2013 di Randall Miller, con Alan Rickman nel ruolo di Hilly Kristall.

Il film vede tanti personaggi della scena musical da Debbie Harry a Lou Reed, passando per Iggy Pop interpretato da Taylor Hawkins, scomparso da pochissimo. Randal Miller nel 2014 è stato condannato a due anni di carcere per un incidente sul set, in cui ha perso la vita una collaboratrice, mentre giravano un biopic su Greg Allman degli Allman Brothers.

Il CBGB rappresenta il prototipo di un locale come porto franco e spazio creativo dove sviluppare e provare in libertà. Dove nuove band si aggiungono continuamente e dove, addirittura, negli spettatori germoglia il seme della creatività e la voglia di suonare e di dare sfogo a questa urgenza creativa. Un circolo virtuoso.

L’ostacolo di fondo alla creazione di un palinsesto musicale è la scarsa domanda che limita l’organizzazione concreta e congrua di date. Abbiamo troppe poche richieste e le agenzie di booking, gli organizzatori di eventi e i gestori sanno che non potranno fronteggiare con certezza i cachet richiesti da artisti e troupe. A maggior ragione in un momento di totale dissesto del settore e forte crisi economica che colpisce tanti addetti ai lavori nello scenario (post)pandemico. Bloccare una data con la speranza di riempire le sale è un azzardo che in pochi si sentono di correre. E in un’attività di impresa sono pochi quelli che investono senza considerare il timore della perdita. Le cover band tolgono gli spazi alla musica originale. Il sistema musicale non ha risorse infinite e attualmente le cover band succhiano la linfa prendendosi una grossa fetta di locali, con conseguente attenzione dei pubblico ed energie che vengono spese per creare gli stessi concerti. Se il pubblico spostasse il proprio focus dalle cover band alle band con materiale proprio, per i gestori non cambierebbe nulla. A onor di cronaca ci sono già diversi locali che cercano di dare spazio alle band emergenti e fungere da esempio. Come il Monk (Roma), il Fabrik (CA), Bloom di Mezzago (MB), Lokomotiv (BO) (di cui parliamo per esperienza diretta di frequentatori) o altri ancora. Durante il biennio trascorso il settore dell’intrattenimento musicale ha subito l’esposizione maggiore al rischio di dissesto economico. Tra chiusure di locali, alcuni dei quali storici e che non riapriranno più, timori e date posposte si sarebbe potuto cogliere l’occasione per puntare sui piccoli gruppi. Band emergenti o con un seguito al momento contenuto e che non avrebbero avuto problemi a trovare 50 spettatori se si fosse investito sulla giusta promozione. In attesa di tornare alla piena capacità. A corollario ci sarebbe, soprattutto per i gruppi emergenti, una maggiore possibilità di vendere i propri dischi e il proprio merchandising agli spettatori. E la voce principale di guadagno, in ambito musicale, è l’attività concertistica. La combinazione di questi effetti potrebbe ridurre il numero dei dopolavoristi, permettendo agli artisti di provare seriamente a guadagnare dalla propria arte. Un sistema di valorizzazione e remunerazione giusta per gli artisti e le band. Le possibilità per cui molti rinuncerebbero a fare cover preferendo proporre pezzi propri sarebbero in grande aumento. Un sistema che darebbe la possibilità a un numero maggiore di musicisti di trasformarsi in artisti per professione, senza dover rinunciare ai propri sogni o limitarsi a fare i dopolavoristi. Ma dedicandosi alla carriera artistica. Non tutti, ma molti musicisti si troverebbero nella condizione di poter provare a condividere la propria arte senza l’assillo di dover scegliere tra creatività e la cover band de Luciano Ligabue (cit.).

Non sarebbe forse quello che auspichiamo tutti? Un mondo con più artisti liberi di creare e meno cover band di Ligabue?