Considerazioni sulla scrittura, il rapporto col pubblico, Patreon e le prossime evoluzioni dei Bachi da Pietra.

Giovanni Succi nasce a Nizza Monferrato nel 1969 e, degli ultimi trent’anni, è stato quello che il protagonista dichiarava di se stesso nell’introduzione del romanzo “Q” del collettivo Luther Blisset: “nell’affresco sono una delle figure sullo sfondo”. L’affresco, nel nostro caso, è quello della scena italiana e in particolare quella alternative rock. Giovanni, sebbene non abbia beneficiato dello stesso protagonismo di altri artisti della scena, si è ritagliato uno spazio in cui ha potuto e continua a lasciare il proprio segno. La carriera di musicista si lega inizialmente alla Wallace Records, etichetta indipendente celebre nella scena italiana alternativa e con cui pubblica i lavori dei Madrigali Magri, per poi affidarle anche i lavori solisti e soprattutto la parte iniziale della discografia dei Bachi da Pietra. Quello che colpisce dell’artista è la sua capacità di scrittura: uno dei più interessanti liricisti nel panorama italiano degli ultimi vent’anni, con alcuni punti di contatto con la penna di Emidio Clementi dei Massimo Volume

Giovanni Succi è uno studioso della cultura prestato alla musica o è un musicista con una passione smodata per la storia e la letteratura? La sua laurea in lettere è un elemento utile per capire lo stile e i riferimenti culturali disparati di attento osservatore della realtà circostante, in continua oscillazione tra riferimenti musicali, pop culture e autori letterari. La scrittura di Succi gioca sulla polisemia, su sferzate ironiche e caustiche allo stesso tempo oltre che nell’abilità di poter ricorrere a un ampio spettro di figure retoriche, ma senza retorica. Nel corso degli anni ha pubblicato tre dischi solisti (Lampi per Macachi – Wallace Records, 2014; Con Ghiaccio – 2017, La Tempesta Dischi; Carne Cruda a colazione – 2019, La tempesta), l’ultimo dei quali è stato selezionato tra i cento migliori dischi della musica italiana secondo la redazione di Rumore.

Alla carriera musicale ha affiancato attività nei teatri, luoghi di cultura e perfino scuole, con spettacoli e reading, focalizzandosi su alcuni importanti nomi della cultura italiana: “L’arte del selfie nel medioevo”, in cui racconta “Le Rime Petrose” di Dante e recentemente “Il Castello del Germi“, un ciclo di eventi tenutosi al castello Sforzesco di Milano sulla figura di Italo Calvino, nella simultanea veste di partecipante e direttore artistico e al quale hanno preso parte anche Gipi, Rodrigo D’Erasmo, Cecilia Sala, Manuel Agnelli e altri nomi della scena culturale.

Il suo lavoro come musicista, all’interno di un collettivo o band, è stato molteplice. Ha collaborato con Spam & Sound Ensemble, La Morte e Apocalypse Lounge, ma è con i Madrigali Magri prima (tre dischi dal 1999 al 2002-2004) e, soprattutto, con i Bachi da Pietra che Succi inizia a costruirsi una propria credibilità e autorevolezza come musicista, paroliere e interprete di una scena musicale e di un modo esclusivo e coerente di proporre la propria arte. La discografia dei Bachi si compone attualmente di sette dischi in studio, con l’ottavo in arrivo a novembre, e uno split EP con i Massimo Volume, pubblicati negli ultimi 15-20 anni.

Il progetto dei Bachi è nato come duo insieme al polistrumentista e produttore milanese Bruno Dorella (Wolfango, OvO, Ronin, Bar La Muerte), insieme hanno costantemente affinato il proprio stile e arricchito di nuovi elementi, partendo da un folk elettrico, apocalittico e rumoroso degli esordi di “Tornare nella terra” e “Non io”. I primi due lavori, rispettivamente 2005 e 2007, presentavano soluzioni che riflettevano una combinazione di cantautorato sporco e assalti sonori di chitarra e batteria. Quest’ultima, essenziale e ridotta a rullante e timpano, erano il marchio di fabbrica di Dorella, come già sperimentato nei Wolfango. E, come gli insetti, hanno mutato la propria forma (mentis e non solo), uscendo dal bozzo e inspessendo gli strati del proprio guscio. Una corazza che, ad ogni disco, ha aggiunto nuovi spunti e nuove forme. In costante mutazione e miglioramento. L’ultimo cambiamento di esoscheletro ha portato all’ingresso del terzo baco, Marcello Batelli, musicista di talento (Non voglio che Clara, Teatro degli Orrori) e produttore stimato nella scena.

Nell’urgenza creativa, che siano i dischi solisti e biografici o i lavori dei Bachi, il modo di comporre e suonare è stato figlio di una mutazione senza snaturazione, un cambiamento in evoluzione ma con il pregio di aver mantenuto la propria anima identitaria. Dal 2022 ha creato “Amaro Succi“, un podcast da tarda serata, in forma di racconto sonoro a puntate, con personaggi, episodi e materiale originale. Una canzone come Con ghiaccio, una delle più biografiche, è un esempio di divertissement senza perdere la faccia: con una maggiore varietà di suoni e una sperimentazione interessante rispetto al minimalismo ruvido e nichilista dei primi Bachi da Pietra. Nei suoi lavori convivono ora il kraut rock (con ghiaccio), ora il pop-rock e la contaminazione elettronica (come il synthpop di algoritmo vicino a certi LCD Soundsystem), così come la scelta di proporre cover di Paolo Conte, artista di cui Succi potrebbe essere la versione post-apocalittica del mondo di Fallout o Mad Max.

Foto di Igor Londero

Black metal il mio folk

La poetica di Giovanni Succi è figlia di un profondo spirito critico, una matrice culturale da avido lettore e attento osservatore della realtà circostante e della sfera individuale (compresa la propria, visti i frequenti riferimenti autobiografici nei testi). Il piano dell’IO-autore astratto è la concezione standard come prospettiva del narratore nel testo: deve adeguarsi al pubblico più vasto possibile affinché l’ascoltatore tenda a identificarsi e creare un legame affettivo e sinergico con la voce narrante del brano. Tale piano e il piano dell’IO-Succi, sono vicini al punto da confondersi o sovrapporsi in diversi brani. Ed è proprio questa sostanziale rottura della quarta parete che contribuisce ad affinare l’ironia dello stesso autore. Una coinvolgente autoreferenzialità che, tra gli amanti della scena alternative rock italiana, è apprezzata per quel senso di appartenenza e comunità tipica dell’ambiente underground. Come in Enigma, in cui Succi nomina in sequenza entità che non conoscono la risposta all’enigma stesso: Succi, Dorella, Mattia Coletti, Vittoria Burattini ed Egle Sommacal (mentre Emidio Clementi la sapeva ma ne ha perso la memoria) fino ad arrivare a case discografiche e Mazinga Zeta.


L’ironia, caustica e tagliente, e il suo metatesto anarcoide sono due elementi chiave della produzione bachiana. Versi che sono solchi nel terreno e proiettano immagini vivide nella memoria, in cui si annidano come tarli. Tarli e insetti sono macrotemi ricorrenti di una ipotetica entomologia sonora che si intreccia con le memorie del suolo e del sottosuolo. Le parole e i suoni presenti nei dischi del trio (e prima duo) piemontese sono spigolose, nevrotiche, abrasive, claustrofobiche, reali e concrete. Puzzano di disfatta e di sconfitta, di rabbia e di apprensione, di fastidio e pessimismo esistenzialista. Ma hanno anche un lato in cui alberga la speranza, la forza d’animo per uscire dalla stagnazione della vita agra, l’amore e la necessità di condividere i nostri strazi e spazi con altri. Sono molteplici i topoi sviluppati nel corso della carriera e ci vorrebbero ore per catalogarli tutti senza dimenticarne alcuno. Tra questi spiccano il tema del senso atavico di fame e di sete (che si riflette anche nella discografia solista, “Con ghiaccio”), di neve e arsura, di sabbia che muore in gola e annegamenti nelle fatiche quotidiane.

E, infine, il tema dell’insetto. Ho provato a contare i titoli in cui è citato: Paolo il tarlo, mare delle blatte, dio del suolo, coleotteri, tarli mai, apocalinsect, tarlo della sete, farfallazza, verme, notte delle blatte, muta, bestemmio l’universo, insect reset, tarlo terzo, habemus baco. 

Ma cosa simboleggia l’insetto?

L’insetto è un essere vivente e senziente, una delle classi animali più diffuse e vaste al mondo. Si contano oltre 900mila specie di insetti esistenti al mondo, per arrivare a quintilioni di insetti viventi. Unità numerica che non conoscevo e rappresentata graficamente come un numero seguito da diciotto zeri. In ogni caso gli insetti esistono a ogni latitudine, ecosistema e da tempo immemore. Hanno una capacità che oggi si sintetizza con un termine abusato e svuotato di significato, anche per colpa dei tamarri ed estetiste che se lo sono tatuate sul corpo: resilienza. Intesa come capacità di adattamento e sopravvivenza, in un numero indefinito di condizioni climatiche e geografiche: che si tratti di grandi città, foreste o distese inospitali, l’insetto è una costante.

Eppure, nonostante siano stati una presenza fissa dai tempi della comparsa dell’uomo, la convivenza con la nostra specie è sempre stata caratterizzata da sentimenti contrastanti. Disgusto, paura, diffidenza, odio sono alcune delle sensazioni che irrazionalmente suscitano in noi. Larve e mosche sono collegate ai cicli della necrosi e della rinascita. Le locuste e le cavallette sono animali che devastano le culture, nonché ricordate come una piaga biblica. In tutto questo l’insetto è esistenzialista: viene schiacciato e ucciso a vista, porta il proprio fardello e i bambini tendono a torturarlo. Ma continua a riemergere dal sottosuolo. Sottosuolo e pietra che sono l’altro grande tema, come verrà svelato in seguito. Presente in diversi brani (dio del suolo, sepolta viva, zuppa di pietre, dragamine, pietra per pane, slayer and the family stone, sepolta viva) la materia è evocata persino nel titolo di due dischi, “Tornare nella terra” e “Quarzo”.

Impari ad amare gli insetti più strani se vedi
Tutti quei piccoli sforzi sovrumani e sereni
Piace star lì a guardare, tipo tempo d’estate
Tanto ho niente da fare
Posso sempre schiacciare e sentire il suono che fate

Perché mi fa sentire bene
Darvi l’amore e la morte insieme
Solo per sentire il suono
Perciò se c’è qui il dio che sono
Nessun perdono

Un essere condannato a (R)esistere é destinato a governare, secondo la massima darwiniana sulla specie più forte? E senza dubbio gli insetti sono capaci di adattarsi. Ma in fondo esiste una grande differenza tra la nostra specie e il mondo degli insetti? L’uomo ne prova disgusto perché probabilmente sa che non riuscirà a liberarsene (senza considerare la loro importanza per gli equilibri dell’ecosistema) e dovrà convivere con l’insetto. Ma in realtà ci sono più similitudini tra noi e gli insetti di quanto non si pensi. E, non a caso, Kafka e il suo Josef K. hanno saputo descrivere benissimo il concetto della somiglianza.

“Sono un insetto e porto il peso. Non mi sono mai arreso
sono un insetto e porto il peso dell’Umanità.
Saremo umani o quasi. Umani o quasi umanità” (BdP – Umani o quasi)

In occasione dell’imminente uscita di “Accetta e Continua”, nuovo disco che sarà pubblicato per la Garrincha Dischi il prossimo novembre e anticipato dal singolo “Mussolini”, abbiamo raggiunto in forma virtuale Giovanni Succi per sottoporgli le nostre domande su diversi temi e conoscere la sua versione su questi argomenti.

EP: Partiamo dal tema dell’insetto: cosa rappresenta per te e perché è un topos così ricorrente nella poetica dei Bachi da Pietra? 

GS: Il mondo degli insetti apre a infiniti parallelismi con la condizione umana. Prendi me ad esempio, rispondo a questa domanda dal 2005 eppure non mi rassegno, mi condanno ogni volta alla ricerca di una risposta diversa alla stessa domanda. Come l’insetto che spinge ogni giorno una palla di sterco, sempre la stessa ma ogni volta diversa, in un deserto e poi muore.

EP: Un altro tema ricorrente è quello della pietra e del suolo. “Hai spaccato le tue pietre nella gola”, “pietra della gogna”, “zuppa di pietre” e “pietra per pane” sono riferimenti presenti nel disco “Quarzo”. E non a caso il vostro disco di esordio si intitola “Tornare nella terra”. Puoi parlarci di questo altro macrotema?

GS: Nel mio immaginario la pietra è il verso, l’esistenza e anche il rock’n’roll. La terra è l’habitat, l’humus, non ce ne risulta un altro al momento. Vale per insetti e umani allo stesso modo. È la nuda e complessa verità della materia, da dove veniamo e dove torniamo. Insetti sono animali verso i quali non simpatizza nessuno, ma è reciproco. Lo stesso dicasi degli umani dal punto di vista degli insetti. La terra è il soggetto che ci nasce e ci uccide a ruota continua, la gogna – maledetta e benedetta – che ci lega all’esistenza senza alcuna differenza. Il perché di tutto questo o ci è ignoto o non esiste. C’è anche una canzone che si chiama BIGNAMI proprio in quell’album, dove provo a spiegarlo con altre parole mie diverse da queste.

Bdp – Bignami (Quarzo, 2011 – Santeria/Wallace)

EP: Ascoltando la produzione dei Madrigali Magri e dei Ronin/Wolfango, in alcuni frangenti, sembra che i Bachi siano una mutazione di questi gruppi e abbiano voluto portare avanti il loro lavoro, ma senza apparire come uno spin-off degli stessi. Quanto hanno pesato queste esperienze pregresse e come? Quale è stato il passaggio che ha portato alla nascita dei BdP e per quali ragioni?

GS: Lo stile di Dorella nei Wolfango era già personale e riconoscibilissimo, con la sua batteria ridotta a rullante e timpano; quanto a me, ero la voce, la chitarra e la penna dei Madrigali Magri. Abbiamo portato ognuno la propria esperienza e le proprie peculiarità nei BDP, è normale che si senta. Avevamo una spinta vitale e musicale forte a proseguire e superare quelle esperienze, ormai concluse, su terreni diversi ma pur sempre nostri.

EP: Io credo che i Bachi abbiano avuto una mutazione costante, partendo da una struttura sonora, un esoscheletro minimale, ruvido e spigoloso. Per poi arricchirsi di nuovi elementi, in costante formazione fino ad arrivare a brani stratificati ed elaborati che fanno apparire due gruppi diversi i bachi degli esordi dai bachi attuali. “Primavera di sangue” assomiglia a un Tom Waits, mentre “Fumo” è qualcosa che si avvicina ai Massive Attack. Questo percorso come si è sviluppato?

GS: Tu credi bene e credi giusto, perché è così. Da “Primavera DEL sangue” (marzo 2005), per la precisione, ad Accetta e Continua (17 novembre 2023). Ci sono gruppi che trovano una ricetta e vanno avanti felicemente con quella. Ci sono altri che sono alla continua ricerca di una forma diversa e si annoiano a rifare la stessa cosa. Credo sia l’eterna differenza tra Rolling Stones e Beatles ed entrambe le soluzioni possono essere belle e dare buoni frutti oppure no. Io sono un fan degli AC/DC dal 1980 (avevo 11 anni, ne ho 54): sono sempre identici, per fortuna. Erano fatti per essere quella cosa a vita. Io purtroppo sono fatto per essere Succi. Tutti noi nel nostro piccolo, da insetti quali siamo, non ci siamo mai fermati, partendo da un grado zero e sviluppandolo anche in risposta all’ambiente umano. Siamo un gruppo vivo e focalizzato sul presente, quindi cambiamo, pur rimanendo riconoscibilmente noi in ogni singola espressione che mettiamo nel mondo.

 EP: L’innesto di Marcello e il conseguente passaggio in una formazione a tre, a parere del sottoscritto, rappresentano la forma migliore per i Bachi. In sede live i vecchi brani acquistano nuova luce e permettono variazioni più coinvolgenti. Senza contare che la sezione ritmica ne guadagna in respiro e profondità. Ci sono dei brani che avresti voluto scrivere da subito con la formazione allargata? State pensando a una sorta di remix con arrangiamenti nuovi di vecchi pezzi?

GS: Tutti. «When you go Bat you never go back». Dove “Bat” sta chiaramente per Batelli. Ci piacerebbe molto arrangiare molti pezzi per la nuova formazione, e ci piacerebbe avere un pubblico oceanico al quale proporre tre ore di concerto. Un sogno. La realtà dei fatti è diversa: ci è concessa spesso al massimo un’ora e poco più, che se ne va tra una selezione di pezzi nuovi del tour e una manciata di vecchi cavalli di battaglia.

Foto di Igor Londero

EP: Quando ti ho visto live nel tour di “Necroide” mi ha colpito una frase che hai detto sul palco, ringraziando i presenti al concerto: «Il vero nemico è il divano». Secondo te la pigrizia dello spettatore (soprattutto quella mentale), in ambito live, è il primo nemico della cultura musicale e della possibilità di avere un cartellone concertistico valido? Io ne ho parlato nell’articolo sulle cover band e volevo sapere la tua sul tema dei concerti in Italia.

GS: Beh è innegabile che il pubblico fa la differenza e decide liberamente e legittimamente chi premiare. Il pubblico odierno premia SOLO I GRANDI NOMI, che siano artisticamente finiti trent’anni prima, che siano finti, bolliti, in playback… non importa. Il pubblico vuole quello e premia quello. Allora si alza dal divano e fa centinaia di chilometri e spende centinaia di euro: vuole farsi fottere, rivivere il passato, il rito collettivo, ad un prezzo altissimo. Solo così è certo di spendere bene il proprio tempo e denaro fuori dal divano. L’unico modo che abbiamo noi, insetti e proletari della musica, per convincere le persone del contrario, è mandarle a casa felici e appagate dopo un nostro concerto, dando il massimo ogni sera su qualsiasi palco, in qualsiasi condizione. Per questo ringrazio chi muove il culo per venire a vedere noi a gratis o pagando solo 10-15€. È la gente che decide e io (come tutti noi insetti) ne ho grande rispetto. Mi adeguo ma combatto. Accetto e continuo.

Ogni tribù grida gott mit uns gott mit uns quale gott mit uns qualche gott mit uns
e se la vita vale meno della polvere da sparo macelliamo a mano stile africano
noi mordi e fuggi noi chiagni e fotti noi tutti più furbi noi tutti più forti
nella tempesta siamo noi i bifolchi non la testa eravamo i pidocchi

EP: La tua produzione solista sembra più rilassata e variegata rispetto al lavoro con i Bachi. Mi riferisco a canzoni come Con ghiaccio, le cover di Paolo Conte, algoritmo o Bukowski. Sembra quasi che nei tuoi lavori solisti ci sia più luminosità e spensieratezza, passami il termine, con suoni e temi meno “pesanti“? C’è un desiderio di scindere i due mood, perché magari nei BdP non troverebbero spazio o spezzerebbero la narrazione?

GS: Esattamente. Da quando ho scoperto la possibilità di fare dischi solisti (e ce ne ho messo di tempo, nella mia ottusità), posso concedermi temi e suoni che esulano dalla saga dei BDP. E poi credimi non metterei mai due etichette diverse alla stessa bottiglia di vino. E se non si sente la differenza, è la stessa bottiglia con un’etichetta diversa. Mi fa piacere che sia evidente la differenza.

EP: Ho visto che hai scelto di usare Patreon come strumento di promozione. Perché l’hai scelto? Che impressioni hai avuto per ora? Lo consiglieresti come scelta ad altri musicisti? 

GS: L’ho scelto come unico modo creativo per sopravvivere rimanendo attivo e ricevendo in cambio il sostegno diretto del pubblico in periodo di lockdown (tra una balla e l’altra, ricordiamolo, è durato due annetti). In quel momento ha funzionato, mi ci son pagato le bollette. Finito il periodo Covid funziona molto meno, nonostante io sia rimasto attivo, lo riempia di contenuti inediti o esclusivi, di reading, podcast e progetti letterari, mie letture di grandi autori, anche musicate, bootleg, concerti segreti… Insomma tengo il posto vivo. Ultimamente anche di inediti della produzione solista che faranno un giorno parte di un album. Ma l’impressione è che il messaggio non passa, chi mi segue non ha capito che non è un giochino o un passatempo: è per necessità che ci si inventa una strategia al giorno. Bene, perché il mio è un lavoro creativo: inventarmi una cosa al giorno è il mio mestiere. Ma la maggior parte delle persone non ha capito. In un mondo in cui Spotify non paga, YouTube non paga, le etichette non pagano, i locali chiudono e se non chiudono ti pagano giusto le spese per arrivarci e tornare a casa, sei condannato a soccombere. Eppure dall’altra parte ci sono almeno un migliaio di persone che se ti incontrassero al bar ti offrirebbero un caffè (come dice il poeta «…un caffè e un vaffanculo non si nega a nessuno»). Non riesco a convincere quelle mille persone che ammirano il mio lavoro che potrebbero pagarmi un caffè al mese o una volta ogni tanto, decretando così la mia sopravvivenza. Di persona me lo offrirebbero in cambio della mia musica e dei miei testi da trent’anni a questa parte. Sulla piattaforma no. In Italia non si è capito che uno si fa Patreon (oppure OnlyFans) per spirito di adattamento, sperando di campare. Lo consiglierei? Certo, campare è anche bello, uno ci prova.

EP: Quali sono i dischi e gli artisti fondamentali per la tua formazione?

GS: Troppi. Diciamo solo i primissimi: letture di poesia anni Settanta (Alberto Lupo, Vittorio Gassman…), le avventure di Topo Gigio nello spazio, Kim & The Cadillac, Sheila & Black Devotion, la sigla de Il Corsaro Nero, i Pink Floyd di The Wall, Alberto Camerini, Renato Zero, Finardi e Bennato, i primo Police, i Ramones, i Kiss, gli AC/DC.

EP: Siamo sempre curiosi di carpire qualche segnalazione su nuovi ascolti. Ci puoi consigliare tre album, usciti nell’ultimo periodo (anno, triennio o lustro), che ti hanno colpito?

GS: Black Midi. Sleaford Mods. Bob Dylan, Bruce Springsteen (…questi ultimi due sono grandi nomi, ma per niente bolliti, anzi!).

EP: Qui in redazione c’è un tema che ci sta a cuore e di cui abbiamo parlato. Che ne pensi della situazione musicale italiana attuale, soprattutto a livello alternativo e underground: ci sono spazi per band e artisti? C’è possibilità di crescita per nuovi nomi? Qual è secondo te l’aspetto peggiore al momento?

GS: L’aspetto peggiore al momento credo sia questo: la tecnologia ha reso estremamente facile l’ascolto, ma questo lo ha reso superficiale al punto che la persona che ascolta si è ormai convinta che chi crea è intercambiabile e superfluo, non ha storia e se ce l’ha non interessa. In un ambiente del genere nulla di nuovo nasce o cresce, se non è pompato dall’immagine. Ma stavamo parlando di musica, giusto?

Bachi Da Pietra: Bruno Dorella, Giovanni Succi e Marcello Battelli – Foto di Igor Londero

EP: Avete pubblicato lo scorso otto settembre il nuovo singolo Mussolini, per la Garrincha dischi. Cosa puoi dirci sul nuovo disco dei Bachi da Pietra? 

GS: Per me epocale, poi fate voi. Con MUSSOLINI primo singolo uscito l’8 settembre 2023 (a 80 anni esatti da quell’otto settembre) abbiamo infranto un tabù evidente nella musica italiana. Lo abbiamo fatto senza retorica e senza slogan. Risponde con i fatti al mito mediatico ormai sdoganatissimo del Duce. Persino mia madre (87 anni, votante) è arrivata a dirmi che «Mussolini ha fatto anche cose buone». Innegabile. Ma mi è toccato ricordarle che suo padre – un onesto lavoratore enologico di ventisette anni – sparì dalla sera alla mattina nel 1938 e non lo rividero mai più per un piccolo dettaglio: non aveva la tessera del fascio. Certo non fu Mussolini in persona, fu il suo regime, in nome suo a massacrarlo. Quali cose buone sono valse ad esempio il vile assassinio di tuo padre, ho chiesto a mia madre. Due più due è un conteggio che non si riesce più a fare in Italia, oggi, troppo difficile, troppo complesso, roba da intellettuali, due più due. Lasciò una vedova meridionale al nord discriminata come i neri nella vecchia Alabama e quattro orfani, figli di un antifascista e di una terrona, quindi immeritevoli a prescindere. La sua “giovinezza primavera di bellezza” fu quella, segnata dall’assassinio impunito del padre. Ma nemmeno lei la vede più. Che dire? Il marketing funziona. Per questo siamo pronti a ripetere: non per il folclore innocuo dei saluti o per le cazzate dei bimbiminchia… Ma perché siamo un popolo imbecille (quando il peggio ti sembra il meglio, sei un imbecille) che si beve qualsiasi cazzata confezionata bene e non ricordiamo più la morte a gratis. Il nuovo BDP rispecchia l’imbecillità e la morte gratis, confezionati bene. Accetta e continua, a questo punto diventa una domanda.

EP: Il singolo è, sul piano dei testi, la conferma dello stile sferzante, ironico, ricercato ma comunque diretto e senza scrupoli. I giochi di parole, la polisemia e la scelta di suoni che ricordano l’industrial narcotico, dei Nine Inch Nails, ritmiche trip hop e un certo folk nervoso di Capossela e Waits sono un’ottima premessa. Ci puoi dare qualche dettaglio sulla nascita del pezzo e sul testo?

GS: Il pezzo nello specifico è in cantiere nella mia testa e sulla mia chitarra dal 2015 circa, finalmente ha trovato una forma. Il testo era un poema troppo lungo, ho deciso di tagliarlo e tenere solo l’essenziale, perfettamente a fuoco. Solitamente non reggo le scritture troppo prolisse, alla Capossela appunto. Se sento una zeppa o una sillaba di troppo, io nervoso lo divento. Con l’età non reggo più nemmeno la retorica, che in Italia va alla grande ovunque e premia sempre. Su MUSSOLINI era necessario essere brevi e incisivi, senza indulgere in luoghi comuni di nessun colore, guardare al passato ma parlare dell’oggi. Spero di esserci riuscito.

EP: Lo stile di Mussolini sarà ricorrente nel disco oppure è un episodio all’interno del nuovo lavoro? Cosa ci puoi anticipare sul nuovo lavoro?

GS: Metti le virgolette a “Mussolini” se no suona veramente male. Ci troverete dentro i BDP nel loro stadio di evolutivo legato al presente… Come sempre.

Per addentrarsi nelle profondità del sottosuolo bachiano e succiano:

Giovanni Succi: Patreon InstagramFacebook

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Nessun musicista di origine piemontese è stato maltrattato nel corso di quest’intervista. Anzi, ci tenevamo a ringraziare Giovanni Succi per la grande disponibilità e cortesia che ha saputo mostrarci, accettando da subito di rispondere alle nostre domande.