“Guilty pleasure” è un termine ampiamente utilizzato. Ma cosa vuol dire esattamente? Si tratta di qualcosa (un film, una canzone, un libro, un programma tv, ecc.) di cui si gode in “segreto” perché non è generalmente tenuto in grande considerazione, o è visto come insolito, strano, di bassa qualità o in qualche modo sbagliato.
In musica il concetto è chiaro: avete presente quella canzone che vi piace tanto ma non avete il coraggio di dire pubblicamente che l’apprezzate? L’accento va proprio su “guilty”, sul “senso di vergogna e imbarazzo” nel confessare ascolti considerati deplorevoli.
Ma chi considera questi ascolti deplorevoli e perché ci si dovrebbe vergognare?
La risposta alla prima domanda è molto semplice: la comunità di riferimento, gli amici, la sfera sociale in cui si è inseriti, dalla nicchia musicale, la sottocultura, l’élite. Le risposte possono essere molteplici ma fanno tutte riferimento all’appartenenza, all’identità di gruppo e all’opinione divergente rispetto a tale appartenenza.
Il guilty pleasure (GP da ora in poi) è trasversale: ciò che può esserlo per un gruppo di riferimento può non esserlo per un altro. Questo è dovuto alla soggettività delle situazioni, al periodo storico e ai gusti delle persone.
Possiamo individuare alcune categorie “guilty pleasure”, ad esempio vecchie canzoni terribili, alcune talmente brutte da diventare interessanti. Oppure le canzoni piene di cliché, o ancora quelle con una melodia troppo catchy, quelle estremamente tamarre.
Se vogliamo fare un po’ di statistica spiccia, probabilmente è la musica pop mainstream e quella dance che hanno fornito la maggior parte di pezzi e di artisti “guilty pleasure”, proprio per la loro natura di saper (e voler) piacere alle masse.
Da qui sorgono altre tre domande chiave:
- Perché ci dovrebbero essere artisti, canzoni, band, dischi considerati guilty pleasure?
- Chi decide che un ascolto è da considerarsi colpevole?
- Oggigiorno il concetto di “guilty pleasure” ha ancora senso?
Facciamo un passo indietro, provando a descrivere una situazione che presupponga l’esistenza del GP.
Fino ad una manciata di anni fa era presente una grandissima frammentazione musicale: c’erano generi, sottogeneri, nicchie di vario tipo, sotto-nicchie ancora più specifiche, stili diversi che creavano ancora più differenze (volete un esempio? Questo sito prova a identificare brevemente ben 67 generi ma non riesce comunque a tenere conto della complessità generale del mondo musicale).
Tutte queste frammentazioni costituivano vere e proprie suddivisioni, spesso chiuse verso l’esterno, come blocchi isolati in totale atteggiamento di “us vs them”.
A vario livello, e a seconda del periodo, si avevano situazioni di rock vs disco, punk vs metal, musica di nicchia vs musica commerciale, alternative vs pop. E la stessa cosa succedeva all’interno di una stessa scena (west coast vs east coast e così via). Questo si rifletteva in piccola parte nei musicisti, per la maggior parte nel pubblico, ma in modo più esasperato nelle fanbase.
Tutto ciò perché la musica non era solo arte o semplice piacere di ascolto. Era anche qualcosa d’altro. Ma cosa?
Era “identità”: ciò che ascolto mi rappresenta. Sono io. E rappresenta il mio gruppo, il mio circolo, il mio branco.
Era “credibilità”: se ascolto musica che il mio gruppo ritiene di bassa qualità (se non peggio) allora la mia credibilità è compromessa. La situazione peggiora ulteriormente se sono considerato una persona musicalmente competente: se si scoprono i miei GP, questo potrebbe pregiudicare la mia immagine nei confronti del gruppo.
Le situazioni possono essere quelle descritte o molte altre a loro attigue. Insomma, un panorama da “muro di Berlino” che per fortuna oggi si è ampiamente sgretolato.
Una situazione che fino a qualche anno fa era presente, se non addirittura prevalente.
Un altro aspetto da tenere in considerazione, più subdolo e latente, è che, se ci pensate bene, tutta questa questione ha anche un pesante sentore di sessismo: spesso quelli che vengono bollati come GP sono brani pop, allegri, leggeri, spesso cantati da voci femminili, o artisti che principalmente piacciono ad un pubblico femminile.
E, in modo sottile, per non dire subdolo, ciò che è considerato “tipicamente” (non ci piace fare categorie monolitiche, ma vogliamo che il concetto passi forte e chiaro) attraente per le donne, spesso non viene preso sul serio. Il grande maschio alfa non si abbassa al livello della musica per ragazzine?
Come scrive Sarah Gill in un articolo intitolato “Is the idea of a ‘guilty pleasure’ inherently sexist?”:
«Si pensa che le teenager non riescano a discriminare tra una cosa intellettuale e una frivola, per cui essere adorati dalle ragazze è un lampante esempio di mediocrità, e ciò rende le loro canzoni preferite “non vera musica”.
Andando al nocciolo della questione si arriva al fatto che “i ragazzi amano le cose intelligenti, in modo intelligente e le ragazze amano le cose sciocche, stupidamente”, questo ci porta alla domanda: chi decide cosa ha un registro alto e cosa è di bassa qualità?
Chi ha criticato senza scrupoli gli interessi frivoli e i piaceri inoffensivi rendendoli esecrabili fino a farci sentire in colpa nel godere seriamente di qualcosa che suscita gioia? Chi ha stabilito la gerarchia del gusto, definendo sciocche le canzoni pop?»
Se volete scomodare anche Platone e Aristotele, gli antichi Romani e la Chiesa Cattolica c’è questo breve video di Ted Gioia intitolato “The secret shame of music” in cui parla della potenza della musica “femminile” e di quanto l’ascolto di questa sia stato osteggiato e considerato imbarazzante se non addirittura vergognoso perché è un tipo di musica legata alla nostra vulnerabilità, quella più sentimentale, quella più legata alla sfera emozionale.
Col tempo la situazione si è sempre più evoluta e la commistione tra generi è diventata sempre più normale. Questa situazione ha di fatto abbattuto gran parte dei muri rimasti (sul discorso del sessismo c’è ancora tanto da lavorare).
Siamo arrivati ad una completa libertà musicale: ogni musicista contamina la sua musica con quello che vuole, inserendo nel proprio suono quello che ritiene più interessante senza per forza avere paura di perdere pubblico o credibilità. Ogni appassionato ascolta ciò che vuole, quello che lo fa stare bene a prescindere da cosa sia, e non ci sono ascolti di cui vergognarsi.
Possiamo ammetterlo senza grossi problemi: oggigiorno il concetto di “guilty pleasure” ha perso totalmente senso. Possiamo tranquillamente affermare che in musica non ci sono più pleasures che possono definirsi guilty. Gli ascoltatori, soprattutto i più giovani, sanno che:
- non devono minimamente sentirsi colpevoli per le loro scelte musicali;
- hanno il diritto di ascoltare e apprezzare ciò che vogliono;
- non hanno paura di ascoltare e apprezzare qualcosa di diverso rispetto al solito, soprattutto se considerato più leggero, più frivolo o poco figo.
O almeno è così che dovrebbe andare. Ci sono ancora sacche di resistenza, di pensiero chiuso, di snobismo esasperato. Le tendenze di ascolto non cambiano da un giorno all’altro. Ma possiamo dire che probabilmente nessuno prova questi sentimenti negativi legati all’ascolto con la stessa forza di come succedeva ancora una decina di anni fa.
La conferma di questa trasformazione e contemporaneamente il lato fortemente ironico (non voluto) di essa è la nascita di playlist dal titolo “Guilty pleasure” o la categorizzazione di alcuni artisti in una sorta di contenitore tematico chiamato “Guilty pleasure”.
Una lunga evoluzione in cui lo stesso GP è diventato un genere a sé stante, con aspetti stilistici propri.
Ma è davvero un genere? E oggi si può parlare ancora di generi (più o meno definiti)? Lasciamo gli interrogativi aperti, magari prima o poi scriveremo un articolo anche su questo.