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Esiste una relazione tra musica e inquinamento? Quanto incide la modalità di riproduzione sul bilancio ambientale? Le risposte non sono esattamente piacevoli.

Quanto costa la musica?

Di fatto una domanda semplice che prevede una risposta semplice. Di base la musica costa quello che siamo disposti a spendere. Dipende prima di tutto dal tipo di formato: può essere un supporto fisico quale il vinile o il cd oppure può essere sotto forma di file. I costi variano a seconda della novità o dell’edizione, nel primo caso, o in base al tipo di abbonamento mensile, offerta online o di qualità audio in riproduzione streaming.

Esiste però un altro costo legato alla musica, un costo invisibile, poco conosciuto ma che ci riguarda tutti quanti, ascoltatori e non. 

Come la musica viene registrata, prodotta, mixata e masterizzata ormai è cosa nota. Quello che, invece, è meno limpido e chiaro è il percorso della catena di distribuzione per far arrivare la musica fino alle nostre orecchie e permetterle di emozionarci. E se ciò genera delle conseguenze.

Si è molto discusso su quanto la musica, tra le varie arti, sia davvero incorporea ed eterea, ma la verità è che la musica è quanto mai concreta e ha un impatto sul mondo che ci circonda e sulle sue risorse. 
I processi meccanici per creare un disco fisico o quelli digitali attivati da un server per riprodurre musica liquida, richiedono un utilizzo concreto di materia e di energia che prevedono dei costi tutt’altro che lievi. 
Il costo invisibile, poco discusso e poco approfondito, è quello dell’impatto ambientale della musica. O, almeno, di come la produzione del supporto fisico o del server che permette lo streaming abbiano conseguenze sul mondo che ci circonda e da cui noi dipendiamo.

La musica quindi ha due costi: il primo è quello che vogliamo pagare per avere un’esperienza, il secondo è quello che impatta sul nostro ambiente di vita e le sue conseguenze naturali, economiche e sociali.
L’ascolto di brani non è più solo un piacere individuale, ma si trasforma a tutti gli effetti in una questione sociale. 

Dipanare la matassa

Quali materiali sono impiegati nella realizzazione di un disco, in vinile o cd? Qual è il processo di creazione di questi supporti dall’inizio alla fine? Come funziona lo streaming della musica? Quali sono i costi umani e ambientali coinvolti?

Negli ultimi anni questi interrogativi sono stati la matrice di partenza per sviluppare un’analisi approfondita sui diversi costi della musica. L’attività di ricerca, nata dalla collaborazione tra il Dottor Kyle Devine dell’Università di Oslo e il Dottor Matt Brennan dell’università di Glasgow, è confluita in una pubblicazione dal titolo “The cost of music”: un esame dettagliato di quanto e come la musica abbia realmente conseguenze sull’ambiente.

Senza un prodotto fisico, il comune equivoco è quello di pensare che la musica in streaming sia più ecologica rispetto ai formati fisici che l’hanno preceduta.

fonte: Stock Rocket/Shutterstock

Durante la migrazione della musica verso la sua forma eterea (l’mp3 e, ancora di più, con lo sviluppo dei primi servizi di streaming), l’idea di una musica ecofriendly/green fu di grande sollievo per le tante persone attente alla salvaguardia dell’ambiente.
Non più risorse fisiche da estrarre, plastica da produrre, inquinamento causato dagli spostamenti dei grandi cargo per la distribuzione, condizioni lavorative umane deprecabili e generazione di rifiuti fuori scala: tutti questi elementi non avrebbero più avuto un impatto negativo. Forse.

La promessa intrinseca della liquidità musicale faceva pensare, per logica, che avremmo rispettato di più e meglio la natura.

E in effetti la sensazione era quella: la quantità di plastica usata, tra il 1977 e il 2016, per produrre enormi quantità di copie fisiche (cd, vinili e cassette), ebbe un tracollo quasi verticale con l’avvento dell’Mp3.
Si pensò che questa riduzione dell’uso della plastica e del suo impatto avrebbe permesso alla musica digitale di poter salvare il mondo. Purtroppo questo non è accaduto.
Anzi, si è verificato drammaticamente l’opposto.

Per fare luce su questo argomento così ampio e complesso, il focus dell’indagine si è allargato progressivamente, arrivando a coinvolgere tutti i diversi attori che hanno una parte in questo processo. La ricerca di Devine e Brennan entra in profondità nelle domande e analizza due principali aspetti: quello economico e quello ambientale. Viene messo in luce che, con il passare del tempo e del susseguirsi dei supporti, anche le possibilità e le volontà di spendere soldi da parte dei consumatori per un bene non di prima necessità si sono fatte via via sempre più basse, mentre l’impatto di questi cambiamenti sull’ambiente risulta molto più massiccio.

Viene evidenziato inoltre come l’industria musicale, per poter continuare a vendere dischi e brani, si sia adattata nell’offrire nuove soluzioni per l’ascolto che, come vedremo a breve, cercano di tendere sempre di più alla – quasi – gratuità della fruizione. 

Come illustra la tabella sotto: nel 1907 un cilindro per fonografo ha avuto un picco di costo di 12,95 € (la ricerca si riferisce in dollari nella attuale valuta, questo articolo è convertito in Euro nell’attuale valuta.), un vinile in gommalacca per un 78 giri nel 1947 si attestava a circa 10.16 €, un vinile nel suo picco nel 1977 costava 26.65 €, una cassetta nel 1988 arrivava a 15.55 €, il cd nel 2000 si posizionava a 20.15 € (a volte a costi ancora più alti) e a circa 10.35 € per un album in digitale nel 2013. 

Il costo medio delle piattaforme di streaming musicale quali Spotify, Apple Music, Amazon Music, Tidal ecc., se non addirittura gratuito (con alcuni limiti), mediamente si attesta a 9,99 € al mese, ma rispetto ai supporti predecessori, la possibilità di attingere ad archivi musicali sconfinati è pressoché infinita.

Fonte: University Of Glasgow

N.b. la ricerca è stata fatta prendendo a campione la cittadinanza e i dati degli Stati Uniti, non sono stati presi in esame altri dati perché le variabili sono praticamente illimitate per essere considerate tutte, e non ci sono altre fonti altrettanto attendibili o verificabili.

Tolto il picco del vinile, il costo della musica è calato rappresentando circa l’1% del salario medio mensile. Questo sembra essere quello che le persone sono mediamente disposte a spendere per avere accesso alla musica. A fronte di questo piccolo impegno economico, però, si aspettano – ed effettivamente ottengono – l’accesso a un archivio sconfinato di musica ogni qualvolta lo desiderano.

Ma perché allora la musica impatta così tanto sull’ambiente quando in verità ha perso man mano la sua fisicità e concretezza?

La ricerca “The cost of music” dimostra un dato interessante: la disponibilità economica da iniettare nella musica si fa via via diradandosi ma la richiesta di potervi accedere diventa sempre più elevata. Con l’aumento della domanda arriva il conseguente aumento delle offerte e delle possibilità. L’industria ha risposto quindi con la creazione e la crescita di strutture che potessero permettere di far arrivare i brani con la sola pressione di un click. 

Prima però di arrivare al punto dobbiamo fare, insieme al lavoro dei ricercatori, un passo indietro per capire materialmente quante e quali risorse sono coinvolte in questo passaggio epocale, dalla fisicità alla liquidità.

Parallelamente, per entrare nel dettaglio, la ricerca prende in esame la quantità di plastica utilizzata, sempre negli Stati Uniti, per produrre dischi in vinile, cassette e cd. 
Rispettivamente, la produzione nei suoi picchi storici è stata la seguente:

  • Nel 1977 furono usati 58 milioni di chilogrammi 
  • Nel 1988 furono usati 56 milioni di chilogrammi 
  • Nel 2000 furono usati 61 milioni di chilogrammi

e nel periodo 2013-2016 ci fu un crollo verticale che toccò quota 8 milioni di chilogrammi.

Con questo andamento il consumo di plastica si ridusse ai minimi termini e storicamente non fu mai così bassa. Il problema dei costi elevati del processo sembrerebbe quindi risolto leggendo i dati, ma è quando si sposta l’asse prospettico che la bolla seducente della musica in streaming perde totalmente il suo potere.

Fonte: Rasa Kasparaviciene/Unsplash

Si è giunti alla conclusione che, convertendo questi dati di produzione della plastica e l’assorbimento di elettricità richiesta per i servizi streaming di file audio, nelle equivalenti emissioni di gas serra GHG (Greenhouse Gas), il risultato cambia notevolmente.
Anzi drammaticamente.
Rispettivamente:

  • Nel 1977 furono prodotti 140 milioni di chilogrammi di GHG
  • Nel 1988 furono prodotti 136 milioni di chilogrammi di GHG
  • Nel 2000 furono prodotti 157 milioni di chilogrammi di GHG

e nel periodo di crollo di uso della plastica (2016) le emissioni calcolate di GHG furono tra i 200 e i 350 milioni. Praticamente il doppio rispetto ai picchi delle decadi precedenti.
Questo tra l’altro è riferito ai soli Stati Uniti, non su scala globale.

Dal grafico a fine paragrafo diventa lampante quanto in verità la musica sia di enorme impatto sull’ambiente e quanto le sue impronte di GHG siano aumentate nel corso del tempo.

Da tenere presente: pur essendo esponenziale il nuovo costo a cui stiamo rispondendo, prima dell’era dello streaming comunque i volumi di inquinamento erano enormi e di grande preoccupazione. Non si cada nell’errore di pensare che nelle scorse decadi ci fosse un approccio più ecologico o etico.

Il Dott. Devine nel 2019 ha pubblicato il libro “Decomposed. The political ecology of music”, stampato e distribuito dall’MIT Press (Massachusetts Institute of Technology), che approfondisce in maniera ampliata e dettagliata la sua precedente ricerca. Nel libro l’autore illustra, nel capitolo “Data (2000-now)”, quanto l’era dello streaming e dei data center sia in verità di enorme peso sui costi ambientali. Oltre a prendere in esame quanta energie elettrica (ed altre risorse) viene consumata per le attività di streaming, bisogna prendere anche in considerazione quali siano le fonti di approvvigionamento di tali energie.

Un gigabyte di dati scambiati su internet corrisponde circa ad una lampadina da 60 Watt tenuta accesa per un’ora circa. 

Quale e quanta energia ci vuole per tenerla accesa?

Fonte: University of Glasgow

La potenza del click

Ogni click che facciamo, per leggere, ricercare, guardare, ascoltare, condividere, genera una certa quota di emissioni GHG. Perché la rete e i servizi di streaming cloud funzionino è necessario avere delle strutture fisiche dedicate a tale scopo.
Queste strutture sono conosciute come Data Center (o Farm Server), ovvero luoghi fisici dove viene installata una quantità enorme di server che permettono la trasmissione di pacchetti di dati in upload e download, oltre allo stoccaggio di file.
I Data Center richiedono l’impiego di ingenti risorse: ad esempio l’energia elettrica per essere operativi 7 giorni su 7, 24 ore su 24, oppure quella necessaria per il funzionamento degli impianti di raffreddamento (dove viene consumata anche una quantità non indifferente di acqua).

I consumi di queste strutture si traducono in emissioni, ovvero l’impiego delle risorse per mantenerli accesi e operativi si tramuta nelle emissioni GHG utilizzate per produrre quelle stesse risorse.
Secondo recenti stime il consumo di energia assorbe tra l’1 e il 2% della domanda globale. 
Un gigabyte scambiato sulla rete produce da 28g a 63 g di CO2 equivalente (la lampadina da 60 Watt menzionata prima), mentre un solo server in un anno produce da 1 a 5 tonnellate di CO2 equivalente.

Una ricerca del 2020 della Commissione Europea curata dal Dottor Rabih Bashrous, menzionata in un articolo comparso su Al Jazeera, ha portato alla luce che la riproduzione del brano Despacito è stata cliccata, quindi visualizzata, per oltre 4,6 miliardi di volte. L’energia utilizzata per far si che ciò avvenisse, è la stessa equivalente del consumo di energia elettrica annuale combinata del Chad, Guinea-Bissau, Somalia, Sierra Leone e la Repubblica Centrafricana.
Per una canzone.

Per fornire un altro dato: Shift Project è un’associazione francese /think-tank non profit che si pone l’obiettivo di mitigare i cambiamenti climatici indotti dalle GHG e ridurre la dipendenza dai combustibili fossili. Il suo lavoro ci ha fornito un ulteriore dato: le emissioni di gas serra prodotte dai Data Center su cui si appoggiano Amazon Prime Video e Netflix sono equivalenti alla totalità delle emissioni di una nazione come il Cile. 

Le ricerche dimostrano quindi che ogni click richiesto per un servizio di streaming, alla lunga, lascia un segno indelebile sulle risorse del nostro pianeta.
È vero che una canzone, in termini di peso, non è paragonabile ad un videoclip musicale, a uno streaming di gaming su Twitch o allo streaming di un lungometraggio tramite le piattaforme di video-on-demand, ma ha quantità di riproduzioni infinitamente più elevate.
Purtroppo l’equazione è semplice: più canzoni, più consumo elettrico (e altre risorse).

Ciò che sorprende è che l’ammontare di energia necessaria per eseguire un download su un device e la riproduzione in streaming del medesimo brano è praticamente la stessa. In base al peso, lo scambio di dati è pressoché identico. Però nel caso del download, tutti i successivi play avranno un impatto unicamente sulla energia erogata alla batteria del device scelto, mentre dal cloud ogni click di play genera sempre e comunque un ulteriore utilizzo di energia dal server.

I numeri fino a qui mostrati purtroppo hanno due ulteriori lati negativi:

1) la maggior parte delle ricerche presenta risultati verificabili solo su quei paesi o quelle aziende di streaming cloud che li condividono e su cui sono trasparenti, ma ci sono ancora ad oggi molte altre che non li dichiarano, semplicemente perché pur esistendo delle normative, non c’è obbligo di legge che imponga loro di renderli pubblici o di modificare il loro impatto;

2) buona parte di queste analisi fa riferimento a periodi ante Covid 19. 

Durante i Lockdown avvenuti tra il 2020 e il 2021, la richiesta ed utilizzo dei servizi streaming, di tutte le forme possibili, si sono moltiplicati all’inverosimile e le emissioni GHG sono aumentate esponenzialmente, ma non abbiamo ancora dati certi su cui continuare le analisi.
La certezza, drammatica, è che sicuramente non saranno positivi.

Fonte: Manuel Geissinger/Pexels

I data Center sono il male?

Come abbiamo visto poco fa, ogni azione generata sulla rete ha una conseguenza diretta di consumo di energia e quindi di emissione di gas serra. Ovviamente con le dovute differenze. 

Senza i data center, i servizi IT, e le varie piattaforme, però, tutte le operazioni che noi compiamo a livello professionale o consumer non sarebbero possibili, quindi in un certo senso questi servizi sono indispensabili. Le aziende che si occupano di servizi di streaming acquistano o noleggiano server in queste strutture: Spotify nel 2016 è passata da tradizionali Data Center al Google Cloud Platform (GCP), Apple Music e Soundcloud si basano su Amazon Web Services, giusto per menzionarne alcune, e queste macro compagnie dichiarano di investire in progetti atti ad equilibrare le loro emissioni GHG.

Dal 2017 le grandi aziende hanno l’obbligo di includere nel bilancio la propria impronta ambientale (Decreto legislativo 30 dicembre 2016 n.254, direttiva 2014/95/UE) e il report deve contenere indicazioni circa l’utilizzo di risorse energetiche, l’impiego di risorse idriche, le emissioni di CO2. Devono dunque calcolare la propria “carbon footprint”.

Però le compagnie conoscono con precisione quali energie o risorse vengono utilizzate per avere le loro piattaforme online e funzionanti? Non sempre, e non sempre se ne preoccupano. Tantomeno i progetti di contro-bilanciamento delle emissioni sono concretamente utili.

Da un articolo inchiesta di Milena Gabanelli e Domenico Affinito comparso nel 2021 su Dataroom, appare che le intenzioni di queste grandi aziende, per quanto sincere, non sono nient’altro che fumo negli occhi:

«[Le compagnie di streaming, NdA] investono in parchi fotovoltaici, eolici e piantano alberi. Lo ha fatto Microsoft in Madagascar e Amazon in Brasile. Google dichiara 8 milioni di tonnellate di CO2 compensate negli ultimi 5, Facebook ne ha dichiarate 145.000 nel 2020. Un meccanismo legale, e ingannevole, perché sembri green ma non lo è. […] Se queste multinazionali avessero un minimo senso di responsabilità, visti i giganteschi profitti, dovrebbero destinare una parte degli utili alla realizzazione di fonti rinnovabili e alla riforestazione per restituire al pianeta un po’ di quelle che hanno preso, non per poter continuare ad inquinare.»

Vi lasciamo di seguito un articolo per approfondire tutto il discorso sui data center e le loro emissioni GHG, di cui riportiamo un virgolettato: “I consumi di elettricità si traducono in emissioni di gas serra mediante un semplice calcolo: l’energia consumata viene moltiplicata per un fattore di emissione, espresso in gCO2eq/kWh. Il fattore di conversione da energia elettrica a GHG dipende da quali fonti sono state utilizzate, se rinnovabili o meno. […] Per calcolare le emissioni, oltre al fattore di conversione, è necessario conoscere i consumi elettrici. E per diminuire le emissioni vanno diminuiti entrambi i fattori: i consumi di energia elettrica e il fattore di emissione.”
Per chi volesse maggiori ed esaustivi dettagli consigliamo la lettura dell’articolo “Quanto inquina il Cloud? Ecco perché l’opacità dei vendor non è più sostenibile”.

In un’intervista del 2019 apparsa su Rolling Stone, il Dottor Devine chiarisce: 

«Ciò non significa che Google stia utilizzando energia completamente rinnovabile o che le sue emissioni di CO2 siano inferiori”, afferma. “Quello che stanno facendo è acquistare o investire in energia rinnovabile a un tasso che eguagli o corrisponda alla quantità di energia che utilizzano comunque.» 

In prosa: le compagnie, fino ad ora, non sono intenzionate a ridurre i consumi ma solo a bilanciare – e non in maniera adeguata – le proprie emissioni

Però la diagnosi, al netto, è infelice.
Al momento le grandi aziende si stanno muovendo ma senza risultati significativi, le tipologie di risorse da cui trarre energia non sono sempre dichiarate e l’aumento dei data center, quindi delle loro emissioni, sono in forte crescita.

Conclusioni 

L’obiettivo dei ricercatori, giornalisti, attivisti e in ultimo anche di questo articolo, non è quello di affossare l’entusiasmo riguardo al piacere di ascoltare la musica, di demonizzare servizi di streaming o di cercare un colpevole. Il main focus è quello di disporre tutte le carte sul tavolo per poter avere la visione più ampia, dettagliata e consapevole. 

La consapevolezza, la ricerca, l’approfondimento, il confronto con il contraddittorio sulla questione cambiamento climatico e inquinamento correlato, la veduta più ampia sono fondamentali per avere una precisa idea di cosa stia avvenendo e per poter cominciare ad avere atteggiamenti virtuosi sulla questione. 

Ad oggi l’acquisto in copia fisica di un disco e la sua riproduzione, risulta più “friendly” a livello ambientale, ma anche se utopisticamente tornassimo ad un periodo pre-streaming, comunque i livelli di inquinamento non sarebbero sostenibili né accettabili.

Non esistono al momento soluzioni che risolvano quanto descritto con uno schiocco di dita. Sono in atto ricerche e discussioni istituzionali (e non) per poter capire come meglio ridurre i consumi e spostare sempre di più le compagnie verso approvvigionamenti di energie rinnovabili. 
Una soluzione unica forse non c’è, ma esistono diversi approcci che possono essere sostenuti.
Utilizzare copie fisiche in riproduzione, effettuare download sul proprio device di canzoni, podcast, film, utilizzare piattaforme le cui energie arrivino da fonti rinnovabili, acquistare dischi usati, utilizzare siti internet che vadano in modalità stamina dopo pochi minuti di non navigazione, sono dei primi passi – estremamente significativi – che possiamo compiere per muoverci nella direzione ambientale più sostenibile.

È fondamentale, in conclusione, avere piena coscienza che se siamo parte della causa, siamo anche parte della soluzione.