Da ragazzo mi avevano prestato una compilation intitolata “Short music for short people”, pubblicata dalla Fat Wreck Chords nel 1999. Conteneva 101 brevissime canzoni punk, ska e hardcore (20 – 30 secondi di media), divise su 99 tracce (il massimo possibile per un cd). Mi ha sempre fatto sorridere l’ironia nella scelta della prima canzone, intitolata Short attention span.
Mi è tornata in mente in questi giorni, leggendo alcuni articoli in cui si discuteva sul fatto che le canzoni sarebbero diventate più corte.
Ma è davvero così? E quali sono le motivazioni dietro a questo accorciamento progressivo?
Partiamo dai dati
In una ricerca del 2020, Deepthi Gangiredla, Deana Moghaddas, Ovie Soman, Trina Nguyen, Zoeb Jamal della UCLA (Università di Los Angeles, California) hanno usato un dataset di 160.000 canzoni di Spotify per cercare una correlazione tra la popolarità di un brano e alcuni fattori specifici, come durata, ballabilità, tempo, volume, eccetera.
Riguardo alla lunghezza di una canzone, i ricercatori si sono chiesti se e come la durata di una canzone possa influire sulla sua popolarità e anche come questa relazione sia cambiata nel corso degli anni. È stato preso in considerazione un intervallo di 90 anni, che parte dal 1930 e arriva al 2020, diviso in intervalli di 20 anni: 1930, 1950, 1970, 1990, 2010 e 2020.
I risultati sono facilmente leggibili nel grafico sottostante: dal 1930 al 1990 c’è stato un aumento costante della durata media dei brani (da 3’15’’ a 4’19’’) fino al 2020, periodo in cui la durata delle nuove uscite su Spotify è scesa a 3’17’’. Il 1990 ha avuto in media le canzoni più lunghe, mentre il 2020 e il 1930 sono entrambi all’altra estremità dello spettro con durate medie dei brani sorprendentemente simili. Quale può essere la spiegazione dell’improvvisa decrescita, se pensiamo che la limitata durata del 1930 fu causata da limiti tecnologici?
Risultati simili, per il periodo a noi più prossimo, si possono riscontrare anche in questo articolo del 2019 di Dan Kopf pubblicato da Quartz e intitolato “The economics of streaming is making songs shorter”, in cui viene sottolineato che la durata media di una canzone della Billboard Hot 100 è passata dal 3’50’’ (nel 2013) a 3’30’’ (nel 2018).
Allo stesso modo uno studio del 2019 promosso dall’etichetta mancuniana Ostereo riporta che le canzoni pop sono in media un minuto e 13 secondi più brevi rispetto al 1998. Tale ricerca prende in considerazione la durata di ogni canzone che dal 2008 è finita al numero uno nel Regno Unito, più i singoli numero uno del Regno Unito nel 1998 e le prime 100 canzoni più ascoltate in streaming di Spotify. Il risultato è chiaro: la durata media delle canzoni numero uno in UK nel 1998 era di 4’16’’ ma nel 2018, la media è scesa a 3’03’’.
Questa tendenza non sembra coinvolgere solo la musica pop ma, in un certo senso, è andata ad influenzare quello che solitamente viene considerato come l’estremo opposto dello spettro musicale: la musica classica.
Come scrive Ted Gioia nel suo articolo “How Short Will Songs Get?”, il sito della gloriosa etichetta tedesca Deutsche Grammophon invita a provare l’esperienza chiamata “Beethoven – The Piano Sonatas in under 15 minutes”. Ma non solo:
«Anche 15 minuti si rivelano presto troppo gravosi. Il New York Times, da decenni un punto di riferimento nel giornalismo culturale, ha ora abbracciato con orgoglio le presentazioni di cinque minuti alla musica classica.[…].
Ah, ma cinque minuti, come abbiamo già visto, sono anche una richiesta eccessiva nella cultura odierna. […] Anche quegli altezzosi elitari della filarmonica devono stare al passo con i tempi.
Quindi posso solo ammirare il coraggio della Warner Classics, che non solo sta pubblicando opere orchestrali di 30 secondi, ma sta facendo il passo successivo affidandosi a brani familiari di TikTok come materiale da presentare.»
Forse l’uscita della compilation “TikTok Classics – memes and viral hit” (che comprende versioni orchestrali di 18 dei più famosi successi di TikTok, arrangiati in modo classico e registrati dalla Babelsberg Film Orchestra in Germania) è un aspetto troppo estremo. Ciò non toglie che la tendenza sembra definita: la musica sta effettivamente diventando più corta.
I limiti storici
Facciamo un passo indietro e pensiamo alla tecnologia legata alla musica e come questa ha influito sulla lunghezza dei brani.
Un tempo la correlazione tra la lunghezza di una canzone e la capacità di archiviazione tecnica del supporto che la ospitava era diretta. All’inizio del ventesimo secolo, i primi dischi a cilindro riprodotti su un fonografo suonavano per 2 minuti. Negli anni ‘50 si è arrivati allo standard del singolo da sette pollici a 45 giri al minuto che contiene circa 3 minuti e mezzo di suono per lato. A causa di questa limitazione fisica la maggior parte delle canzoni pop destinate ai singoli era tradizionalmente di quella durata.
Allo stesso modo è stata la radio a confermare tale formato, vincolando gli artisti alla tradizionale richiesta di mantenere la loro canzone vicino a tre minuti, per accontentare più ascoltatori possibili senza stancare troppo oltre che per renderle più appetibili dal punto di vista commerciale. I cosiddetti “radio edit” sono quelle modifiche apportate ad una canzone lunga per renderla “radiofonica”: introduzioni o parti finali abbreviate, alcune strofe tagliate, intermezzi risistemati.
Oggi, se ci pensate, con lo streaming la limitazione fisica legata alla durata non esiste più (ma già il limite era stato superato con l’avvento del cd). L’allontanamento dal formato fisico da un lato e dalla radio come piattaforma principale dall’altra, dovrebbe teoricamente significare più libertà per gli artisti e lasciar loro la possibilità di decidere la lunghezza della composizione. Questo è sicuramente un elemento che ha aiutato a spiegare l’aumento della lunghezza media delle canzoni degli anni ‘80 e ‘90.
Adesso, senza alcun limite, dovremmo trovarci davanti ad una variabilità enorme del formato canzone, almeno teoricamente. Ma abbiamo visto che nella realtà ciò non succede.
Il fatidico algoritmo
Le ricerche e le opinioni che indagano il fenomeno di “accorciamento” prendono in considerazione un aspetto sicuramente principale: il fatidico algoritmo e, più in generale, l’economia legata alla musica in streaming.
È chiaro perché torniamo sempre lì: secondo i dati riportati in questo articolo di Quinn Lutz, intitolato “If you’ve noticed songs have been getting shorter, you might be right”, i grossi servizi di musica come Spotify e Apple Music sono stati responsabili nel 2018 del 75% delle entrate complessive dell’industria musicale. Sono piattaforme che operano su base pay per play, che quindi pagano un tot per ogni riproduzione (tendenzialmente pochissimo, Spotify paga i principali artisti tra 0,004 $ e 0,008 $ per stream) e questo offre quindi agli artisti un incentivo a creare tracce più brevi.
Come giustamente si chiede il produttore e ingegnere audio Bobby Owsinski:
«Se una canzone dura 2 minuti o 20 minuti, paga comunque lo stesso tasso di royalty, quindi perché preoccuparsi di comporre una canzone lunga quando puoi farla corta e far sì che qualcuno a cui piace la possa risentire?»
Ma non solo: la minore lunghezza delle canzoni e il modo in cui vengono scritte oggi serve anche per allontanare lo spettro dello skip, che l’algoritmo interpreta come sintomo di poca “validità” della canzone stessa.
Il blogger musicale Paul Lamere di Music Machinery in questo articolo del 2014 intitolato “The skip”, presenta la sua ricerca in cui ha analizzato miliardi di ascolti di milioni di utenti di Spotify in tutto il mondo per scoprire i loro tassi di skip. I risultati sono tutti interessanti, ma focalizziamoci solo sui dati principali: c’è il 24,14% di probabilità di passare al brano successivo nei primi 5 secondi di ascolto. E, considerando tutto il brano, il 48,6% salta prima che la canzone finisca.
Sintetizzando:
- in 1 caso su 4 lo skip è quasi immediato
- in quasi nella metà dei casi la canzone non viene ascoltata fino alla fine
Questo grafico mostra che la maggior parte degli skip avviene entro i primi 20 secondi circa della canzone:
È chiaro che la funzione di skip sia una parte importante dell’esperienza di ascolto: ha modificato il modo in cui ascoltiamo la musica e interagiamo con essa.
Come scrivere una canzone pop, oggi?
Considerando tali tendenze, come vengono scritte le canzoni oggi?
Come racconta il musicista, compositore e accademico Adrian York:
«La scrittura delle canzoni pop è cambiata radicalmente con l’ascesa dello streaming, focalizzandosi ora su una successione infinita di “ganci” (hook), di semplici “frammenti-tormentone” che, attraverso la ripetizione, rendono immediato il riconoscimento della canzone stessa e dell’artista. Secondo “Hit Songs Deconstructed”, la maggior parte delle canzoni di successo è scritta da squadre di cinque o più scrittori con i “topliner” che vengono arruolati per scrivere quei “ganci” assassini. Questo approccio modulare alla scrittura è molto diverso dai metodi usati nell’era del pop classico degli anni ’60 e ’70, quando una canzone ti portava in un viaggio melodico, armonico e lirico che culminava nella sezione del ritornello in un gioioso rilascio di tensione.»
Insomma, la scrittura del pezzo viene portata avanti con qualsiasi espediente possibile (no intro, sì al ritornello subito, sì alla ripetizione, no alla destabilizzazione) al fine di massimizzare il potenziale di streaming e di finire nelle playlist.
In una puntata di Strano Podcast, il chitarrista e fondatore dei Linea 77 Paolo Pavanello, in arte Chinaski, spiega:
«Ai giorni nostri è tutto funzionale al tempo, e cioè quanto resisti dentro una playlist. Ci sono elementi importanti come la durata di una canzone o banalmente l’intro. Adesso l’intro non è concepibile, c’è l’angoscia dello skip. Parlando ovviamente di musica pop, che coinvolge i grandi numeri, ci sono ormai delle regole alle quali non puoi sottrarti. Dal mio punto di vista io non sono entusiasta di questa cosa perché trovo che condizionino proprio il processo creativo.
Devi tenere conto di variabili che una volta non eri tenuto a valutare e penso a classici della storia della musica, a Stairway to heaven, a Bohemian Rhapsody, canzoni che oggi non riuscirebbero ad uscire. Per il lavoro che faccio da discografico cerco di documentarmi, studiare, vedere che cosa succede a livello internazionale e leggevo recentemente che hanno profilato un po’ quello che possono essere i canoni standard di una canzone e la durata dovrebbe essere non superiore ai due minuti e sedici secondi.»
episodio 24 – Strano Podcast “Paolo Pavanello”
Dello stesso avviso è Paul Trueman, direttore generale dell’etichetta musicale AWAL, che ha commentato dicendo che al giorno d’oggi, chi volesse fare una canzone come Paranoid Android dei Radiohead dovrebbe aspettarsi un bel po’ di skip.
Banalmente anche una coda molto lunga potrebbe rendere una canzone meno efficace e avere una performance legata allo streaming decisamente inferiore ad altre tipologie di brani.
Il produttore Mark Ronson, in un’intervista riportata dal Guardian, conferma la situazione:
«Tutte le tue canzoni devono durare meno di tre minuti e 15 secondi perché se le persone non le ascoltano fino alla fine entrano in questo stato di “ascolto non completo”, che fa abbassare la tua valutazione di Spotify.»
Ricordiamo che per ottenere uno streaming ufficiale su Spotify, la traccia deve essere riprodotta per almeno 30 secondi affinché l’autore si assicuri il pagamento per uno streaming. Se, come abbiamo visto prima, un musicista ha circa 5 secondi prima che un ascoltatore decida di passare a qualcos’altro, ecco allora perché così tante canzoni iniziano proprio sul gancio o addirittura sul ritornello: si cerca di bloccare l’ascoltatore almeno per quei 30 secondi necessari per essere pagato.
Ma, come abbiamo detto, è un circolo vizioso: l’algoritmo tende a consigliare e a favorire canzoni molto corte e gli autori di canzoni, per assecondare l’algoritmo, scrivono canzoni più corte della media. Un loop infinito in cui l’algoritmo è il solo signore e decisore supremo.
La tendenza allo skip
Vi siete chiesti il perché di questa voglia irrefrenabile di skippare le tracce?
Lo spiega bene Owsinski in un suo altro articolo, stavolta intitolato “Spotify Song Skip Rates Tell Us A Lot About Our Attention Span”. In breve, possiamo fissare alcune fasi di questo percorso di trasformazione:
Inizialmente, con l’utilizzo dei dischi e della radio, si tendeva ad ascoltare un programma o un album per un periodo molto lungo, semplicemente per la mancanza di alternative o per la poca comodità nel cambiare vinile.
Abbiamo gradualmente iniziato ad avere un controllo, seppur parziale, nella scelta dei contenuti: il telecomando ci ha permesso di non essere legati ad un canale, la memorizzazione delle stazioni radio ha reso possibile il passaggio da una all’altra in modo rapido e comodo. La quantità di scelta rimaneva però limitata (poche reti, poche stazioni).
In campo musicale il cd ha reso comodo lo skip e con esso la possibilità di spostarsi rapidamente da una traccia all’altra.
Con il digitale questa tendenza è aumentata: gli mp3 hanno permesso di creare librerie di canzoni e la conseguente possibilità di variare velocemente gli ascolti. Lo streaming ha ulteriormente incentivato lo skip: con un catalogo quasi infinito a portata di mano è semplice saltare da una canzone all’altra, per cui viene naturale farlo, anche molto spesso: possiamo passare rapidamente a qualcos’altro, nell’esatto momento in cui ne abbiamo abbastanza (tanto da diventare una nuova “cattiva abitudine che rovina l’ascolto“)
L’autore conclude che:
«È diventato molto più difficile convincere un consumatore a godersi un programma di intrattenimento di qualsiasi durata da un capo all’altro. Ci è stata data la possibilità di scegliere rapidamente da cataloghi di prodotti estremamente ampi e non ci fermeremo finché non avremo trovato qualcosa che catturi la nostra attenzione per almeno 30 secondi.»
E non è un caso che alcuni servizi musicali cerchino di monetizzare questa tendenza, mettendo un numero limitato di skip nella versione base per poi averli illimitati in quella premium.
Conclusioni
Non dobbiamo stupirci del fatto che la musica liquida abbia modificato le nostre abitudini d’ascolto: la tecnologia ha sempre dettato il modo in cui la musica pop viene ascoltata e consumata (a partire dalle capacità del supporto).
Ma c’è una cosa da tenere conto: la piacevolezza e il modo in cui il nostro cervello risponde all’ascolto della musica.
Nell’articolo di Gioia già citato, l’autore chiama in causa studi di neuroscienze e di biochimica, che sosterrebbero che i nostri corpi hanno bisogno di un tempo decisamente lungo per rispondere al potere di induzione della trance dato dalla musica. Una canzone di tre minuti non è sufficiente, motivo per cui gli ascoltatori spesso tendono a schiacciare play più e più volte sulle loro canzoni preferite, per compensarne la breve durata.
«È come la differenza tra guardare il menù in un ristorante (che secondo gli esperti dovrebbe essere un processo facile e veloce) e godersi effettivamente il pasto. Se guardi i migliori ristoranti, ti rendi conto che il menù è breve, ma i pasti sono lunghi. Temo che il mondo della musica abbia confuso queste due cose, rendendo l’esperienza di godersi la canzone troppo breve, creando un lungo processo di scorrimento del menu per trovarla.
In questo momento, la melodia ultra-corta è in ascesa e la maggior parte del music business sta seguendo questa tendenza. E in un’epoca di algoritmi, le tendenze si nutrono di se stesse, ripetendosi e ripetendosi.»
Anche Owsinski torna sull’argomento, facendo dei distinguo molto importanti:
«Da un punto di vista antropologico, le canzoni brevi fanno male alla musica, affermano alcuni scienziati. Il motivo è che anche risalendo agli antichi, la musica era usata per rituali e mentalità simili alla trance. Ciò richiedeva che una canzone o un ritmo durassero almeno 10 minuti. La musica pop non si è mai avvicinata a questo e probabilmente non lo farà mai.
Tuttavia, non abbiamo bisogno di entrare in trance per goderci la musica, e per quanto sia lunga, ne godremo comunque se colpisce la nostra fantasia.»
A questo punto aspettiamoci in un futuro nemmeno troppo lontano un ulteriore elemento tecnologico che andrà ad impattare fortemente sulle nostre abitudini di ascolto, cercando di capire quanto velocemente riusciremo ad adattarci ad esso.
prima di sapere cosa fosse spotify, mi ricordo che guardavo i sigur ros nella mia top ten di ascolti su last.fm e pensavo “se considerassero il minutaggio, non ci sarebbe proprio gara”.
ed eccoci qua, 15 anni dopo…
Un po’ come fa Goodreads con i libri: li calcola singolarmente e poi ti fa una statistica per numero di pagine lette. Sarebbe interessante avere una statistica di minutaggio in musica ma forse finirebbe per essere un dato simpatico e da nerd ma non rilevante. Chissà.