Nel suo ultimo libro “Sto ascoltando dei dischi” (2020, add Editore) il giornalista e scrittore Maurizio Blatto, a proposito della bellezza e dell’importanza di ascoltare canzoni tristi, scrive:
Ormai siamo abituati a una musica vergognosamente allegra e commerciale, studiata per adolescenti che a sedici anni provano nostalgia per quando ne avevano sei, all’affronto di una vita ostinatamente progettata come se fosse l’ora della baby dance per adulti. Il quotidiano edificato a villaggio vacanze.
La frase mi ha colpito molto e mi sono chiesto: ma è davvero così? È reale il sentore che le vecchie canzoni siano tristi mentre oggi ci tocca un’anestetica allegria generalizzata? E se invece, sorprendentemente, la situazione fosse diversa da come la percepiamo?
Un primo studio
Nel 2019 è stato pubblicato su aeon.co un interessante articolo dal titolo già programmatico: “Why are pop songs getting sadder than they used to be?”. Gli autori sono Alberto Acerbi, antropologo cognitivo/evolutivo e docente di psicologia alla Brunel University di Londra, e Charlotte Brand, ricercatrice specializzata nell’evoluzione del comportamento umano presso l’Università di Exeter.
I due autori partono proprio dalla domanda: le canzoni pop oggi sono più felici o più tristi di quanto non fossero 50 anni fa? Negli ultimi anni, la disponibilità online di grandi dataset digitali e la relativa facilità di elaborazione consentono di dare risposte precise a domande come questa. Un modo semplice per misurare il contenuto emotivo di un testo è semplicemente la conta di quante parole emotive sono presenti. Quante volte vengono usate le parole legate ad un’emozione negativa (dolore, odio o tristezza)? Quante volte vengono usate parole associate a emozioni positive (amore, gioia o felicità)? Questo metodo, detto “analisi del sentimento”, è semplice ma altrettanto efficace, date determinate condizioni (ad esempio, più lungo è il testo disponibile, migliore è la stima dell’umore).
Acerbi e Brand hanno applicato questa tecnica ai testi delle canzoni. Per la loro analisi, hanno utilizzato due diversi set di dati.
Uno conteneva le canzoni incluse nelle classifiche Billboard Hot 100 di fine anno. Sono canzoni che hanno raggiunto un grande successo, almeno negli Stati Uniti, da (I Can’t Get No) Satisfaction dei Rolling Stones (nel 1965, il primo anno preso in considerazione) a Uptown Funk di Mark Ronson (nel 2015, l’ultimo anno considerato).
Il secondo set di dati era basato sui testi forniti volontariamente al sito Web Musixmatch. Con questo set di dati, hanno analizzato i testi di oltre 150.000 canzoni in lingua inglese, un campione ampio e diversificato in quanto provenienti da tutto il mondo.
Ma quali sono i risultati, nel dettaglio? Innanzitutto che le canzoni pop in lingua inglese sono diventate più negative. L’uso di parole legate alle emozioni negative è aumentato di oltre un terzo. In numero assoluto, ci sono sempre più parole associate a emozioni positive che parole associate a quelle negative. Ciò che conta, però, è la direzione delle tendenze.
L’effetto si nota anche guardando le singole parole: l’uso di love (amore), ad esempio, si è praticamente dimezzato in 50 anni, passando da circa 400 a 200 volte all’anno. La parola hate (odio), al contrario, che fino agli anni ’90 non era nemmeno menzionata in nessuna delle prime 100 canzoni, ora viene usata tra le 20 e le 30 volte all’anno.
Sono stati esaminati anche il tempo e la tonalità delle prime 100 canzoni di Billboard: i successi in classifica sono diventati più lenti e le tonalità minori sono diventate più frequenti. Le tonalità minori sono percepite come più cupe rispetto alle tonalità maggiori.
Un secondo studio
Nel 2018 è stata condotta una ricerca simile: Lior Shamir della Lawrence Technical University ha raccolto i testi di più di 6.000 singoli della classifica Billboard Hot 100, partendo dal 1951 al 2016 e li ha analizzati con un software precedentemente addestrato e testato per identificare i marcatori linguistici di diversi stati emotivi e tratti della personalità (tristezza, paura, disgusto, gioia ed estroversione).
Anche qui riscontriamo una tendenza evidente: le espressioni di rabbia e disgusto sono più o meno raddoppiate in quei 65 anni, ad esempio, mentre la paura è aumentata di oltre il 50%. La tristezza, nel frattempo, è rimasta stabile fino agli anni ’80, per poi aumentare costantemente fino ai primi anni del 2010, mentre la gioia, la fiducia e l’apertura sono diminuite costantemente.
Un terzo studio
Concludiamo citando un terzo studio, condotto sempre nel 2018 dalla matematica Natalia Komarova, della UCI (University of California Irvine). La ricerca ha preso in esame mezzo milione di canzoni pubblicate in UK tra il 1985 e il 2015 tramite un algoritmo testato per estrarre le caratteristiche acustiche di una canzone (uso di accordi maggiori, minori e il tempo).
I risultati hanno confermato che il tono della musica è diventato meno gioioso dal 1985, proprio come suggerito anche dall’analisi dei testi di Lior Shamir. Ma, altro dato interessante, la ballabilità (misurata dalle caratteristiche del ritmo) è invece aumentata insieme ai sentimenti negativi. Quindi, nonostante i sentimenti negativi che esprimevano, le canzoni avevano anche maggiori probabilità di far muovere le persone.
Cosa possiamo concludere?
Ma qual è il motivo dietro ai risultati di questi tre studi? I ricercatori non riescono a fornire ipotesi precise ma, generalmente, suggeriscono che queste tendenze siano correlate ad alcuni cambiamenti che avvengono nella società.
Una teoria che potrebbe spiegare i dati è la teoria dell’evoluzione culturale: come suggerisce il nome, la teoria stabilisce che la cultura si evolve nel tempo seguendo in parte gli stessi principi della selezione naturale darwiniana. In questo caso si tratta di tratti culturali (ad esempio la musica che ci piace) che vengono trasmessi socialmente, in quanto un individuo li apprende osservando e imitando altri individui. Al verificarsi di una variazione, una selezione e una seguente riproduzione, accade che nuovi tratti culturali di successo si innestano nella popolazione, mentre altri si estinguono.
Per cercare di capire perché i testi delle canzoni sono aumentati in negatività e sono diminuiti in positività nel tempo, è stata impiegata la teoria dell’evoluzione culturale con l’obiettivo di individuare particolari variazioni, selezioni e riproduzioni avvenute nel tempo nella popolazione. L’analisi ha riguardato tre tipi di scostamento o, più correttamente, bias. Il primo è stato il bias del successo, in cui si è cercato di capire se le canzoni finite in testa alla classifica di un determinato anno, avessero più termini negativi quando anche negli anni immediatamente precedenti le canzoni meglio piazzate in classifica riportavano tali caratteristiche. In altre parole si è cercato di capire se gli autori di canzoni fossero stati in qualche modo influenzati dal contenuto delle canzoni di successo degli anni precedenti.
Il secondo bias è stato quello del prestigio, in cui si è cercato di capire se le canzoni degli autori di prestigio degli anni precedenti avessero anch’esse termini negativi. Sono stati considerati artisti di prestigio quelli apparsi nelle classifiche Billboard un numero sproporzionato di volte, come ad esempio Madonna (36 canzoni nella Billboard Hot 100).
Il terzo tipo di bias considerato è stato quello del contenuto: si è guardato alle canzoni con più termini negativi nei testi per vedere se queste avessero raggiunto alte posizioni in classifica.
Nonostante si siano trovate alcune minime evidenze nei primi due bias, è proprio quello del contenuto che, tra i tre, sembra spiegare in maniera nettamente più affidabile la crescita dei testi di canzoni con termini negativi.
In altri termini, la crescente produzione di canzoni con elementi di negatività sembra avere la sua spinta propulsiva proprio in una pura preferenza di tali caratteristiche da parte degli autori. Ciò è anche perfettamente coerente con altre ricerche relative all’evoluzione culturale, in cui si è evidenziato che le informazioni negative sembrano essere ricordate e trasmesse maggiormente rispetto alle informazioni neutre o positive.
Alle considerazioni riportate nell’articolo di Aeon, non possiamo non aggiungere una nostra riflessione che riguarda la crescente diffusione di problematiche mentali riconducibili alla depressione. Già nel 2012 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ipotizzava che nel 2020 la depressione sarebbe stata la più diffusa al mondo tra le malattie mentali e in generale la seconda malattia più diffusa dopo le patologie cardiovascolari. La percentuale di persone che soffrono di depressione è in costante aumento e la pandemia ha aggravato la situazione.
La crescente diffusione di problematiche mentali potrebbe (ci teniamo ad usare il condizionale) quindi riflettersi nei testi delle canzoni. La musica pop (nel senso più ampio del termine) tendenzialmente accompagna quello che è lo stato d’animo generale, della popolazione e del periodo storico. Se così fosse, non sarebbe un caso che alcuni dei grandi successi del recente passato parlino di dolore, separazioni, abbandono, solitudine, fragilità e altre componenti negative della sfera sociale e psichica. Insomma, i tempi di Don’t worry be happy sembrerebbero molto più lontani.
Le ipotesi sono molteplici ma le certezze ancora poche. I dati citati potrebbero essere usati come ottimo punto di partenza per approfondire ulteriormente il fenomeno.
