Una chiacchierata su tutte le forme di amore e coinvolgimento per la musica: ascolto e diy, suonare dal vivo e organizzare concerti.

Se cercate bene, nella nuova edizione del dizionario, alla voce “infaticabile” c’è una foto di Franz Barcella. Chi gravita attorno a Bergamo e alla sua scena musicale annuirà con la testa, per tutti gli altri proviamo a riassumere: Franz organizza concerti ed eventi (il Punk Rock Raduno, la programmazione dell’Edoné, gli eventi al bellissimo spazio Daste e il Bombonera Social Pub), suona (il basso) e fa il dj per l’occasione, pubblica dischi (con la sua Wild Honey Records), gestisce tour (con la sua Otis Tours), scrive sulle webzine (Pogozine). Sono solo alcuni esempi delle mille cose che questo infaticabile (appunto) personaggio, diventato oramai un’istituzione, realizza senza fermarsi, spinto da estrema passione, nel mondo della musica. Musica che naturalmente ascolta (tantissima) e compra (altrettanta, basta vedere le sue storie su instagram per invidiare i suoi dischi).

Prima di cominciare, due parole sulla creatura forse più conosciuta di Franz, ossia il già citato Punk Rock Raduno. Un festival nato nel 2016 e giunto alla sesta edizione, che si svolge a luglio negli spazi del locale bergamasco Edoné, messo in piedi con l’obiettivo non solo di chiamare a raccolta la scena punk – lapalissiano – ma anche e soprattutto quello (dichiarato o meno) di far star bene chi vi partecipa. Si nota subito la cura in tutto: nei particolari, nella promozione, dalle foto alla fanzine, e contemporaneamente attenzione al pubblico e alle band. Tutto questo contribuisce a creare un’atmosfera incredibile e riesce a trasmettere un senso allargato di gruppo, di famiglia, anche a chi partecipa come spettatore per la prima volta – qualcosa di radicalmente diverso dai grossi festival italiani che vedono il pubblico solo come un pollo da spennare. Un approccio ribadito con lo slogan che accoglie tutti bello in grande all’entrata e sugli adesivi distribuiti gratuitamente: NO RACISM, NO SEXISM, NO HOMOPHOBIA, ​NO VIOLENCE, ALL AGES.

Ed è proprio da qui che partiamo per una chiacchierata con Franz Barcella per ragionare sulle tantissime sfaccettature del mondo musicale, da fuori e anche da dentro.

EP: Del Punk Rock Raduno adoriamo il fatto che sia un festival completamente gratuito e contemporaneamente impeccabile nella sua organizzazione, a misura di spettatore. Quante persone lavorano dietro le quinte per raggiungere questo risultato? 

F: Non è solo una questione di “quante” ma anche di “quanto”. A inizio agosto abbiamo fatto una riunione con il team per progettare già l’edizione dell’anno prossimo. Quella che noi chiamiamo Punk Rock Raduno Family è composta da alcuni volontari fissi che portano avanti per tutto l’anno il lavoro necessario, un numero variabile tra le 7 e le 10 persone con diversi ruoli: comunicazione, artwork, logistica e booking, merchandise e uscite musicali (LP e compilation). Nei giorni del festival si aggiungono altri volontari: 10-15 arrivano tramite il progetto BG+ (dedicato ai 14-25enni attivi nel periodo estivo in ambito sociale o culturale), altri arrivano spontaneamente a supportarci dall’Italia e dall’estero (quest’anno abbiamo avuto 5 o 6 persone provenienti da altri paesi) e poi c’è tutto lo staff di Edoné e dei vari locali che sono coinvolti dal Raduno. Solo per Edoné si tratta di una cinquantina di persone in tutto. A tal proposito: cerchiamo sempre volontari! 

EP: Organizzare e coordinare, su più giorni, tante band e tanti eventi in giro per Bergamo dev’essere complicato.

F: È complicatissimo ma col tempo ci stiamo impratichendo. La fortuna del PRR è che si tratta di un festival per appassionati fatto da appassionati. Abbiamo anche dei mega-professionisti tra questi volontari, ad esempio Susanna Baggio, che è la “voce” del Raduno e che fa l’editorialista, è una giornalista de Il Post. Luca “Pulce” Sbarufatti gestisce la Striped Music e l’etichetta Striped Records. Mio fratello Brown Barcella è un produttore e sound engineer e cura i suoni del Raduno. C’è una qualità intrinseca del lavoro di queste persone che è impagabile. La fortuna del PRR e la sua esistenza derivano dalla presenza di persone così, che credono molto in questa cosa e pensano sia importante metterci impegno. Non è tanto una questione di location o di budget o di band sul palco, ma di avere tante persone creative e appassionate che prestano la loro mente, corpo, professionalità, idee e cuore alla causa. È una cosa potente ed è, secondo me, la grande differenza rispetto a costruire un festival che sia un’impresa, un’azienda o uno spettacolo.

EP: Ultimamente sono uscite un po’ di polemiche sulla gestione di alcuni eventi musicali italiani, penso agli Arctic Monkeys a Milano, Bruce Springsteen a Monza, i Blur a Lucca. SI tratta di situazioni completamente diverse dal PRR, anche a livello di senso. La grossa differenza è proprio l’idea che ci sta dietro.

F: Sì, sono proprio punti di partenza diversi e sono da analizzare in modi diversi. Alla base è ingiusto fare un paragone tra Raduno e gli altri festival per due motivi: innanzitutto perché il PRR non è un festival ma, se vogliamo guardare proprio alla sua struttura, è una specie di sagra, abbellita e più sexy. Non c’è un biglietto, non c’è un business plan, non si basa sull’idea di comporre un roster o di dare un servizio in un determinato modo e non risponde a quelle regole perché sostanzialmente non è un business. È ingiusto per il Raduno essere messo sullo stesso piano degli altri, anche se per noi ovviamente è un onore. D’altronde è anche ingiusto per altre realtà essere paragonati ad una cosa che è immensamente più piccola e immensamente più facile da fare. Da persona che organizza concerti ritengo che molti eventi come quelli che citavi partano da un contesto e da un’idea sbagliata di business, ma rispetto chi li organizza, perché comunque si tratta di persone che investono anni di vita, di professionalità e di rischi imprenditoriali, nel cercare di portare grossi nomi in Italia, in un Paese in cui (c’è poco da fare e non è nemmeno colpa loro) la cultura, l’apprezzamento e il sostegno per queste cose sono scarsi. Stiamo vedendo quanti artisti non passano più per l’Italia, e questo non per scelta dei professionisti del settore: siamo un paese culturalmente arretrato, che non ha investito in passato e che ora ha dei grossi problemi. C’ero a Monza e non mi è piaciuto il prima e il dopo del concerto di Springsteen, ci sono stati mille problemi. Va analizzata e riformulata l’idea con cui si gestiscono quelle cose, e qui potremmo farne un discorso imprenditoriale. L’aspetto su cui bisogna investire oggigiorno è il tipo di esperienza che vive lo spettatore, e infatti è quello che cerchiamo di fare con Edoné. Se posso accedere comodamente in un posto, se sono felice, se riesco ad avere un buon rapporto qualità/prezzo non solo nel biglietto ma anche nel cibo e nelle bevande, sicuramente ritornerò e cercherò di parlarne anche agli amici. Parliamo di un investimento comunicativo, di fidelizzazione, magari non ha un ritorno economico istantaneo ma sicuramente è efficace nel lungo termine. Un approccio lontano anni luce rispetto a quello in cui tutto si riduce a spremere le persone in quel preciso momento, perché poi agli organizzatori non interessa nemmeno se la gente torna l’anno successivo, punteranno ad avere il nuovo Springsteen o il nuovo artista che la gente vuole vedere a tutti i costi. Ma quando si inizia a non avere più questi grossi artisti di richiamo, è un problema e la cosa inizia a fare acqua da tutte le parti. E si è costretti ad avere nomi sempre più grandi, che costano sempre di più, che alzano il livello di rischio e la catena continua ad andare sempre peggio.

Il Raduno si basa su un altro concetto: creare qualcosa che rappresenti la scena e faccia felici le persone, indipendentemente dalla line-up. Poi ovviamente cerchiamo di mettere sul palco le band che piacciono a noi, perché il Raduno alla fine è nato per quello, ma il modo per renderlo sostenibile è puntare sulla qualità e sull’apprezzamento da parte del pubblico, e finora ha sempre funzionato. Abbiamo annunciato per adesso solo le date dell’anno prossimo (dal 11 al 14 luglio 2024), non abbiamo detto un solo nome ma la gente ci dice e ci scrive che già ci sarà e che ha già preso ferie per venire. Questo è bellissimo perché significa che si fidano di noi, a prescindere dalle band. Al festivalone non vai se non c’è il gruppo che ti piace e per assurdo finisce che ti devi sorbire il festival per vedere quel gruppo. Al Raduno ci vai per entrare in quell’atmosfera, in quell’esperienza, per trovare persone simili a te. E secondo me i festival, i locali, devono avere questo ruolo di socialità.

EP: Alcuni piccoli/medi festival italiani riescono a farlo, e anche molto bene, e poi danno anche l’occasione di scoprire musica nuova. Penso al Raduno, ma anche al No Silenz/A Forest Festival, per rimanere in orbita BG/BS.

F: Esatto, e poi è anche un investimento più intelligente. Tutto si sta festivalizzando: tantissimi vanno ai festival, ai grandi eventi, il concerto piccolo nello scantinato è sempre meno popolare, è questo è un gran problema. Inoltre, soprattutto all’estero, tutti i grandi festival sono corporate. E lo vedi anche qui: il giro dei festival punk, ogni anno sai quali sono i gruppi che girano e tutti i festival hanno un circuito in cui vedrai sempre gli stessi gruppi, gestiti dalle stesse agenzie, che fanno tutto a partire dal prezzo: è un circuito molto chiuso. Ci sono due strade: una è allinearsi a questo, con tutti i problemi del caso perché se vuoi entrare in quel circuito c’è un prezzo da pagare e sicuramente non avrai un pezzo di favore e c’è il rischio di venire sgretolato. E infatti vediamo locali chiudere, festival non sostenibili, cancellazioni improvvise, tutto perché si vuole giocare ad un gioco che non è semplicemente sostenibile o intelligente.

Dall’altra parte c’è una serie di eventi che non corrono dietro a mode ma che cercano di costruire un percorso più strutturato durante l’anno, così da combattere sì sullo stesso terreno degli eventi, ma con armi diverse, lavorando costantemente per abituare la gente ad un determinato suono, con una linea culturale definita. Per quanto riguarda il nostro territorio, le province di Bergamo e di Brescia hanno tantissime feste popolari, che sono feste della birra e che vengono portate avanti grazie a volontari. Pensa a “Libera la festa” di Osio Sopra, a Bergamo Sottosuolo, allo stesso Punk Rock Raduno, al BremBeat’n’Roll: offrono scelte di qualità, sostenibili, che il pubblico premia perché, anche se non c’è il nome dell’estate, comunque la serata è bella e tutto funziona. Anno dopo anno c’è sempre una piccola crescita, è sempre un rischio ma rischi con le cose che ti piacciono e con le cose tue, senza essere vittima di qualcun altro. 

EP: Sei edizioni del Punk Rock Raduno: qual è l’aneddoto più bizzarro che ci puoi raccontare? Qualcosa successo in queste edizioni che ti è rimasto in mente?

F: Per dirne solo uno: nel 2018, CJ Ramone è venuto al Raduno per la prima volta. È uno dei nostri eroi, per cui i ragazzi di Edoné avevano fatto una mega grigliata per tutto lo staff a cui era venuto anche lo stesso CJ Ramone. Era il giorno prima del concerto, ricordo queste brocche di mojito enormi, e già solo l’idea di avere CJ Ramone assieme a tutti i ragazzi, mentre si cuoceva la griglia, e lui lì come se fosse lo zio di tutti, sembrava una di quelle situazioni incredibili, quasi un sogno.

EP: Il Punk Rock Raduno è diventato un evento legatissimo alla città. Tu che sei un bergamasco doc e conosci benissimo le dinamiche della tua città, ci spieghi com’è nata questa connessione? 

F: Da bergamasco e vivendo la città, vedo quanto il PRR sia entrato nelle menti cittadine. C’è un aneddoto che risale ai giorni più difficili della pandemia, quel periodo in cui Bergamo era stata colpita duramente. Io vivevo da solo, non vedevo mai nessuno dal vivo, tranne una volta una farmacista, era tutta bardata tipo scafandro da operazione all’alieno dei film di fantascienza. Non vedevo chi ci fosse dietro ma non la conoscevo. Mi aveva servito, dandomi le medicine che dovevo acquistare, in questo clima surreale e, ad un certo punto, mi dice: «Ma pensi che quest’anno riusciremo a fare qualcosa con il Punk Rock Raduno? Perché io non aspetto altro». È questo è interessante perché il Raduno è una cosa che tanti aspettano come una festa popolare, al di là degli appassionati. Anche i vecchi al bar sanno cos’è perché vedono tanti stranieri in città, e questo affascina un po’ tutti.

Quando abbiamo pubblicato il poster dell’ultimo PRR, dopo mezz’ora mi ha chiamato Giorgio Gori, sindaco di Bergamo, dicendomi di venire a parlarne con lui che era curioso. Tutto questo interesse per me è la cosa più incredibile, perché parliamo comunque di un evento che tratta un genere di nicchia e organizzato da noi che siamo degli outsider.

Tim Timebomb (Tim Armstrong dei Rancid) con in mano il singolo Life’s For Living, pubblicato a maggio 2020 su Wild Honey Records, per contribuire alla raccolta fondi in aiuto dell’Ospedale di Bergamo.

EP: Sei attivissimo nella musica, in tutti i suoi aspetti, possiamo dire che tu abbia attraversato tutti gli stadi della filiera musicale. Com’è cambiato il mondo musicale negli ultimi anni, e in particolare quello della musica diy e indipendente? Quali sono gli aspetti fortemente positivi e fortemente negativi nati in questi ultimi anni?

F: Sì, ho attraversato tanti stadi, tante forme della passione per la musica, quasi tutte. Credo che in tanti possano rivedersi in questo: ti appassioni di un disco, inizi a leggere le fanzine, inizi a coltivare quella passione che poi diventa collezionare dischi. Lo stadio successivo è prendere in mano uno strumento, poi formare una band, andare a suonare, fare un disco, eccetera. E poi ci sono gli stadi in cui organizzi un concerto oppure vuoi andare in tour, oppure vuoi fare da tour manager. Oppure c’è un altro stadio abbastanza tipico che è diventare giornalista, anche se io ho fatto solo il fanzinaro, ma per tanto tempo ho scritto articoli. Effettivamente sì, ho attraversato tutti questi stadi qua, non mi sono mai tirato indietro e forse ne ho messi in atto un po’ troppi, ma sono molto contento perché mi sono creato un modo per sostenermi e questa cosa è avvenuta naturalmente, senza che io la cercassi. Quello che mi manca, e da cui sto cercando in tutti i modi di tenermi lontano, è aprire un negozio di dischi. 

EP: E cos’è cambiato in questi anni? Prima ci accennavi alcune condizioni e situazioni in cui magari un tempo era facile suonare mentre adesso meno.

F: Sono cambiati soprattutto i mezzi e l’approccio ai mezzi stessi. La cosa determinante è stato proprio l’avvento di internet, che ha portato facilità nelle connessioni e nel fare le cose. Quando ho iniziato a fare le fanzine avevo 15 anni, era tutto molto più analogico e quindi anche molto più lento. E costoso. Poi sono nate le prime chat room, le prime mail, e questo ha cambiato tanto. Oggi ci sono più possibilità: registrare è più facile, far uscire un disco è più facile, far sentire la tua musica è più facile. Io non sono uno che crede nel mito del passato migliore, se c’è una cosa che a me dà fastidio della narrativa del punk è quel «Ah, ma gli anni ’80, ah ma gli anni ’90…». No, gli anni 80 e gli anni 90 non erano meglio di adesso. È adesso che conta, è adesso che è più bello di allora e soprattutto è adesso che bisognerebbe sbattersi.

Voglio essere brutale: ho grande rispetto per chi ha fatto cose, sono un mega fan di mille gruppi, di mille artisti, di mille organizzatori, però quello che conta è chi fa le cose adesso. Purtroppo nei nostri sottogeneri, è molto comune incontrare situazioni di forte revival o di rivisitazione del passato, in cui viene creato una specie di mito dei tempi andati che ti induce a pensare che quella era un’epoca d’oro mentre adesso non può essere più così. Questa è la cosa più anti-DIY che si possa fare. Non mi interessa il passato e nemmeno quello che ho fatto io nel passato, l’unica cosa che conta è fare le cose adesso. Io c’ero ai concerti dei centri sociali nella cosiddetta epoca d’oro del punk, sono momenti che ho nel cuore ma non erano meglio dei concerti di adesso, anzi. Io sono uno di quelli che sostengono che adesso le cose vanno molto bene, se non meglio.

EP: Passiamo al tuo lato da musicista, anzi da bassista: suoni ancora con frequenza? So che i Miss Chain & The Broken Heels sono tornati.

F: Sì, siamo tornati a suonare a Bergamo dopo tanti anni, incredibile, aprendo il concerto delle Baby Shakes. Abbiamo un nuovo disco in uscita, registrato, prodotto e masterizzato da Riccardo Zamboni. Suono anche con un altro gruppo che si chiama Nikki Corvette & The Romeos, composta da Nikki Corvette di Nikki & The Corvettes a cui ci aggiungiamo come backing band io al basso, mio fratello alla batteria e Hervé Peroncini dei Peawees alla chitarra. Piano piano mi sto riabituando a suonare anche se fare il musicista non è la mia dimensione preponderante. Ho suonato tanto in passato, mi mancava e ci tengo, e andare in tour è la cosa che preferisco in assoluto.

Franz con i Miss Chain & The Broken Heels sul palco del Troublefestival 2011 (foto di Paolo Viscardi)

EP: Abbiamo visto la partecipazione di Phill Reynolds (alias Silva Cantele, tuo compagno nei Miss Chain & The Broken Heels) alle audizioni di X Factor 2021. Come musicista mi piace molto, il suo disco uscito l’anno scorso (“A ride”) è molto bello e anche dal vivo ho potuto apprezzarlo. A X Factor ha fatto una gran figura anche se la sensazione era che non fosse il posto e la situazione più adatta per lui. Secondo te, un talent può essere uno strumento di promozione per i gruppi? Quando abbiamo chiesto il parere di Mauro Ermanno Giovanardi sui talent musicali ci ha risposto che «i talent hanno ammazzato la musica per come l’abbiamo vissuta noi. Immaginati Bob Dylan o Nick Cave se fossero dovuti passare attraverso le forche caudine di “Amici” e confrontarsi con Maria De Filippi. Un ragazzo di 15/16 anni, che da quando ne ha 5, è cresciuto con X Factor, ha interiorizzato questo modello. Pensa che questo è fare musica. Infatti da lì escono interpreti: Mengoni, Emma, Amoroso, Noemi.» Che ne pensi?

F: Me l’hanno chiesto in tanti perché X Factor è un catalizzatore polarizzante. Da un lato c’è gente che ha reputato una figata la presenza di Silva, perché finalmente ha avuto visibilità e ha potuto essere scoperto da tante persone. Dall’altro lato c’è gente, anche della scena punk hardcore, che mi ha detto «Ma che cazzo fa? Perché non gli hai tirato una sberla?». Silva è come un fratello, ma avevo un po’ di ansia perché volevo che andasse tutto bene: era una grande possibilità per lui, in questa battaglia continua che sta facendo nel portare avanti quel progetto come suo lavoro e ben venga qualche possibilità in più nell’aprire una “finestra” su una parte del mondo.

E poi ero molto curioso perché l’ho trovato un grande esperimento di comunicazione: è interessante vedere quando qualcuno della nostra scena riesce ad avere questi spazi in televisione, sui grossi media e come si mette in moto una macchina dell’entertainment che ha le capacità di triturare o cambiare quella che è la narrativa del personaggio. Da quest’ultimo punto di vista il personaggio che Silva si è creato con Phill Reynolds è molto narrabile, molto affascinante e molto “televisionabile”. Avrei però voluto vederlo suonare i suoi pezzi.

EP: Sì, ricordiamo che lui ha fatto due cover, Ring of fire e Girls just wanna have fun, ma le riarrangiate a suo modo.

F: Esatto, però era comunque lì come esecutore. Mi piacerebbe, e questo anche in generale vale per tutto il music business, che l’attenzione e il contenuto sia su quello che scrivi, non come lo fai e come lo esegui. Mi piacerebbe che tutti gli artisti avessero la possibilità di esprimere la loro arte, non di far parte di uno spettacolo o di essere un semplice personaggio. Abbiamo visto solo una parte di Silva. Penso gli sia andata comunque abbastanza bene, Silva non è uno scemo, sa difendersi e sa quando non prendersi le inculate, per cui è riuscito a prendere visibilità senza avere le ossa rotte. In ogni caso io farò sempre il tifo per lui e non potrei mai criticarlo per una scelta del genere, anzi.

EP: Secondo te come può promuoversi una giovane band oggi, senza snaturarsi o rimanere stritolata dal sistema dei social o dei talent?

F: Dipende da qual è l’obiettivo. Io sono molto tranchant: se il tuo obiettivo è stare in una band per poi far successo e vendere dei dischi e farci i soldi, in bocca al lupo. Succede ad una band su un milione e se ci fosse una strada o una modalità scritta by the book, allora tutti la seguirebbero. È come quando la gente contesta le canzoni pop dell’estate dicendo che sono scritte a tavolino. Ok, ma se ci fosse un modo per scrivere a tavolino una hit penso che nessuno ne sbaglierebbe più una. Invece le band che ci piacciono, che ci hanno influenzato e che ci piace ascoltare e supportare, soprattutto le band più grosse con cui ho avuto il piacere di confrontarmi, nel 99% dei casi hanno iniziato perché erano stra-mega-appassionate, perché sentivano il fuoco, perché volevano fare quello e lo avrebbero fatto comunque. Io sono stato salvato da questa strada che ho preso, da questa passione che mi ha forgiato, mi ha aiutato e, detto sinceramente, aprirei l’etichetta, organizzerei eventi, anche se dovessi andare in fabbrica, anche magari con meno tempo a disposizione. Non faccio quello che faccio per fare carriera, e questo vale anche per i gruppi. È giusto darsi degli obiettivi, crescere, essere competitivi nel modo sano, è giusto migliorarsi e cercare di farsi ascoltare però tutto questo parte dalla passione. Oggigiorno, anche nelle major, non ci sono più gli scopritori di talenti che vengono e ti fanno firmare un contratto. Sia le major sia le etichette più piccole (e vale anche per gli eventi e il Raduno) si accorgono di te quando tu sei lì, fai le tue cose, dimostri di avere le spalle larghe, di star coltivando qualcosa. È allora che ti chiamano.

Spesso ci chiedono perché al Raduno scegliamo una band piuttosto che un’altra (ce lo chiedono soprattutto in Italia). La scelta non dipende solo dall’essere bravi a suonare e aver fatto un bel disco. Certo, anche quello conta, ma il punto fondamentale è cosa sta facendo quella band per la scena punk o per la sua comunità: per esempio è ovvio che se c’è una band a Genova che organizza concerti, aiuta le band in tour, ha la sua distribuzione di dischi, ha la sua fanzine, è sempre propositiva, viene a vedere i concerti, tu sei più propenso a scoprirla, a notarla, ad ascoltarla e poi a darle una possibilità, e questa è una cosa naturale. Tanti ne fanno una questione come fosse uno scambio di favori, ma in realtà è semplicemente essere parte della stessa comunità, ed è lo stesso per l’etichetta. Per come la vedo io, non farei mai uscire un disco di una band che non va a i concerti, che non colleziona dischi, che ascolta solo se stessa, e punta solo ad avere concerti e tour, perché parte da presupposti sbagliati, a parità di qualità della scrittura dei pezzi. Ne faccio sempre una questione di passione: se sei animato dalla passione e continui a coltivarla, riesci a trovare la tua modalità. 

EP: Oggi ci sono dei canali e degli strumenti molto più facili da usare.

F: Certo, e basta aver passione per studiarli così da non stare fermi ma fare qualcosa in prima persona. Oggi ad esempio con Bandcamp puoi crearti la tua comunità, puoi farti pubblicità, non devi avere per forza dei budget mostruosi. Magari poi non vai in classifica. Ma con la giusta dose di intelligenza, passione e voglia, si possono portare a casa dei risultati anche maggiori rispetto a quello che succedeva tempo fa.

EP: E rispetto ai locali, come pensi che sia la situazione?

F: Guarda, troppe persone ne fanno una questione di quattro mura. Spesso la gente dice «Ma che fortuna che avete voi a Bergamo di avere Edoné». Non è stata fortuna, quello spazio ce lo siamo creato noi, a partire dai concerti nel garage, a partire dai festivalini illegali che abbiamo organizzato. Non sono le mura che fanno un locale, sono le persone, sono le idee, sono lo sbattimento e tutti possono farlo e in qualunque città. Bisogna staccarsi dall’idea che una città è viva a seconda degli spazi che ha, mentre sono le persone che fanno la differenza. L’Edoné non era nulla quando è nato, era uno scantinato, ci suonavano gli Ex-Otago e per noi era l’evento dell’anno. C’è sempre quel non detto per cui le cose debbano sempre cadere dal cielo mentre il do-it-yourself ti riporta con i piedi per terra: nessuno ti regalerà nulla. Se c’è qualcosa di valore, come Edoné o come un altro locale cittadino o un festival, allora tu devi prendere parte attivamente o supportarlo perché è importante tenerlo in vita. Quanti negozi di dischi o locali che non si sono rinnovati si fermano e poi sotto la notizia della chiusura leggi i commenti del tipo «Ah, cavoli! Mondo di merda! È ingiusto non avere più questi spazi», poi magari non ci sono mai stati o non compravano un disco lì da chissà quanto.

Franz con i Miss Chain & The Broken Heels – Edoné, Agosto 2023

EP: A proposito di DIY, parlaci della Wild Honey Records: oramai la tua etichetta esiste da parecchi anni (16 se ho fatto bene i conti). La sua nascita è stata uno di quei casi in cui dici «Ehi, il disco di quel gruppo non vuole pubblicarlo nessuno, allora lo faccio io!»?

F: È nata per quel percorso a cui ho accennato prima, è stato uno dei vari stadi di passione. Ad un certo punto io facevo da simil-tour manager ai Mojomatics (NdEP: favoloso duo garage/rock’n’roll attivo dal 2003 al 2014), miei cari amici e contemporaneamente il mio gruppo italiano preferito di sempre. Noi tre crescevamo, giravamo il mondo e intanto vedevamo come si comportavano l e etichette discografiche con loro, arrivando in quello stadio in cui dici «Ma questa cosa possiamo farla noi e magari meglio, potremmo trarne più beneficio, potrebbe essere più divertente, potremmo controllare noi meglio le cose, potremmo farla a nostro modo». Ore passate al volante del furgone con loro, sognando di aprire un’etichetta. All’epoca studiavo ancora e, una volta laureatomi, invece di andare in vacanza ho ho investito i mille euro di regalo dei miei genitori per pubblicare un singolo dei Mojomatics (“Down my spine”, 2007, prima uscita ufficiale della Wild Honey Records). L’idea, già dal nome, era quella di avere un’etichetta basata sulle canzoni: a me piace il pop, piacciono le canzoni ben scritte, quindi mi allettava di fare una cosa pop ma con una forma più wild, più rock’n’roll. Quindi Wild Honey deriva dal garage, rock’n’roll, punk, con una dolcezza data dalla canzone. Poi sono anche un grande fan dei Beach Boys e del miele in generale.

Dall’etichetta non ci guadagno un euro, è tutto reinvestito nelle band. Io sono stra-orgoglioso dell’etichetta, è una delle cose che mi dà più soddisfazione. Avrei voluto tanto girare di più con la band, ma le soddisfazioni sono arrivate lo stesso e questa voglia l’ho soddisfatta attraverso gli occhi di qualcun altro. Ad esempio quando vedo che una band come i Bee Bee Sea (anche loro sotto WHR) vanno in giro, fanno concerti, sono contenti, è un po’ come se anche io, in piccolissima parte, fossi sul palco con loro. 

EP: Durante la pandemia hai anche fondato (assieme a Kappa della Ammonia Records) la fanzine Pogozine. Negli ultimi anni sembra tornato un interesse per il formato fanzine anche se in maniera allargata: queste nuove fanze hanno forma mista, cartacee e digitali (come Pogozine), e spesso si muovono anche in altri formati (penso a dirette twitch, podcast eccetera). Secondo noi si possono considerare un modo concreto, moderno e efficace di creazione di una comunità e come mezzo di trasmissione di valori, notizie, pareri, sentimenti (soprattutto di un’etica punk e diy). Sei un forte lettore? Che cosa stai leggendo di bello in questo periodo? Noi proprio al PRR, l’anno scorso, abbiamo scoperto UP zine: ci piace un sacco perché i suoi autori e autrici mettono una passione incredibile nel raccontare le cose e hanno una scelta degli argomenti interessante e sorprendente.

F: Sono vorace lettore di fanzine e webzine. I ragazzi di UP zine sono fantastici, sono d’accordo. La mia fanzine preferita è Razorcake, che è americana, tratta i generi che mi piacciono. È un po’ l’erede di Maximum Rock’n’Roll, ma è meno focalizzata sull’hardcore punk e tiene uno spettro di punk, garage e diy molto più ampio. Poi mi piacciono le riviste inglesi: mi piacciono Shindig! (che secondo me è scritta molto bene) e Uncut, perché amo molto il classic rock, se vogliamo definirlo così, e il rock’n’roll. Anche la fanzine del Raduno è fatta molto bene, e lo dico da esterno: io non ci metto becco! Invece secondo me manca veramente un punto di riferimento online, sebbene ammetto che mi piaccia leggere Rockit, anche se non tratta sempre di cose nelle mie corde. Alcuni redattori di Rockit attuali sanno scrivere bene e facendo riflessioni interessanti. 

EP: Vorremmo chiudere con una domanda giocosa: se potessi creare una line up immaginaria del festival dei tuoi sogni, senza limiti alla fantasia, quale sarebbe?

F: Quando penso davvero al mio festival dei sogni, io penso ad un evento in cui i gruppi possano suonare gratis per una causa molto alta. Avrei voluto essere alla proclamazione di Obama con Pete Seeger e Springsteen che hanno fatto un pezzo di Woody Guthrie: quella cosa lì è potentissima. Sei lì per un motivo e la musica ti unisce ed è potente ed è migliore di qualsiasi concerto di Springsteen che tu possa mai vedere. Oggi andiamo verso un mondo sempre più complicato: disastro climatico, disastro economico, inflazione alle stelle, la gente che non ha nemmeno più il potere di unirsi e combattere rispetto a determinati temi, per cui il mio evento dei sogni sarebbe qualcosa legato ad un cambiamento, e contemporaneamente una festa, una manifestazione, una battaglia, in cui la musica è protagonista. E allora lì ci vedrei un Tim Armstrong che è sul palco con Springsteen, che è sul palco con CJ Ramone, che è sul palco con i Wilco, e probabilmente loro chiamerebbero artisti che magari non ascolto ma che scoprirei tramite questa fantastica connessione. Il mio concerto dei sogni è partecipare ad un cambiamento in cui la musica è uno dei motori e uno degli aggregatori. Detto molto sinceramente: sono stato a tanti festival e tantissimi concerti, non ne ho bisogno un altro come quelli che ho già visto. Una volta poi che inizi a organizzarteli, cambia solo chi c’è sul palco e non è poi così emozionante.