Ci sono voci che hanno l’effetto di catapultarti indietro nel tempo, che raccontano emozioni, luoghi e volti cari. Voci che suonano quasi “materne” nella loro familiarità.
A distanza di 14 anni dal primo emozionante incontro in occasione di un concerto piano e voce al Magnolia di Milano, mi ritrovo a intervistare Maria Di Donna, in arte Meg, l’artista femminile che più di tutte ha segnato la mia esperienza musicale di ragazzina cresciuta negli anni ’90, innamorata delle proprie origini napoletane e desiderosa di assomigliare, anche solo nell’aspetto, a quella giovane donna minuta e grintosa che per la prima volta vidi calcare il palco nel 1996 accanto ai 99 Posse. Lei era entrata a far parte del gruppo di Luca Persico, ‘O Zulù, due anni prima, regalando alla band partenopea una boccata d’aria fresca proprio quando la fiammata elettronica stava iniziando a incendiare una parte della scena italiana dell’epoca. Da questo perfetto connubio sono nati tre album, “Cerco Tiempo”, “Corto Circuito” e “La vida que vendrà”, e la voce di Meg si è imposta da subito come punto di riferimento nel panorama musicale italiano femminile di quel periodo. Poi i destini di band e cantante si sono separati, come spesso capita, e il cammino dell’artista napoletana è continuato da solista con gli album in studio “Meg”, del 2004, “Psychodelice”, del 2008, e “Imperfezione”, del 2015. E, tra una produzione e l’altra, ci sono state anche numerose collaborazioni e progetti paralleli, tra cui quello con i Phone Jobs (i musicisti Mario Conte, Marco Caldera e Umberto Nicoletti) con cui Meg ha dato vita ad una serie di live interamente suonati solo con l’utilizzo di IPhone.
“Vesuvia”, il quarto album in studio di Meg, è uscito lo scorso 30 settembre pubblicato da Asian Fake e Sony Music e prodotto da Meg stessa in collaborazione con Tommaso Colliva, Frenetik, Orang3, i fratelli Francesco e Marco Fugazza e David Chalmin. Dodici potenti tracce che hanno segnato il ritorno sulla scena dell’artista che è stata definita “la regina dell’elettronica italiana” (da tanti, tra i quali Repubblica e il Miami Festival). Ed è proprio dallo studio delle falde di questo magmatico progetto che iniziamo una lunga e piacevolissima chiacchierata con Maria Di Donna.
EP: Meg, è un piacere ritrovarti a 7 anni di distanza dal tuo ultimo lavoro in studio, con un nuovo album che è una vera e propria esplosione di suoni ed energia. Quanto tempo ci è voluto per la lavorazione di “Vesuvia” e come ha influito la pandemia sulla realizzazione del progetto?
M: All’inizio della pandemia ero molto spaventata e chiusa in me stessa, come molte persone del resto, poi però piano piano ho sentito l’esigenza di scrivere e tirare fuori sentimenti repressi e quindi, dal punto di vista della scrittura è stato per me un momento proficuo.
Il lavoro su “Vesuvia” è stato in qualche modo stratificato. Avevo dei pezzi già nel cassetto da alcuni anni, come Solare o She’s calling, poi circa due anni fa mi sono resa conto di avere tra le mani una decina di canzoni che mi piacevano talmente tanto da farne un disco e quindi ho iniziato a renderli “fratelli e sorelle”. Poi a maggio 2021 sono stata contattata da un mio grande fan, Daniele Mungai (il musicista e produttore romano noto come Frenetik), che cercava di mettersi in contatto con me da tempo, finalmente ci siamo incontrati e mi ha chiesto se avessi qualche progetto in cantiere, così gli ho fatto ascoltare i pezzi che avevo. Gli sono piaciuti moltissimo e mi ha quindi proposto di lavorarci insieme e anche di uscire con la Asian Fake, etichetta con la quale lui lavora (e che ha nel proprio catalogo Coma_Cose, Venerus, Inoki – nda). Ho pensato che fosse un momento perfetto per me, per aprirmi a nuove collaborazioni sia dal punto di vista creativo sia dal punto di vista logistico, dato che finora avevo sempre prodotto il mio lavoro tutto da sola con la mia etichetta ed è talvolta molto faticoso.
Oltre che con Frenetik, alcuni brani li ho prodotti anche con Orang3, Tommaso Colliva e i fratelli Fugazza, che mi ha presentato Daniele, con i quali ho trovato una sinergia pazzesca. Il lavoro sul disco è iniziato a ottobre 2021 e finito a maggio 2022.
EP: Leggendo i tuoi testi si direbbe che sei in un momento felice della tua vita, e questo traspare anche dal racconto, per la prima volta, di piccoli momenti di personale quotidianità, come il rapporto con il tuo gatto, a cui è dedicata Principe delle mie tenebre. In che modo pensi che la tua maturità come donna e artista abbia influito sulla scrittura delle liriche di questo disco?
M: La vita di oggi sembra sempre di più una sorta di corsa a ostacoli e di resistenza (non a caso uno dei primi titoli che avevo in mente prima di “Vesuvia” era proprio “R/Esistenzialism”, un gioco di parole proprio per dire che per certi versi l’esistenza sembrerebbe sempre di più coincidere con la resistenza) e forse qualche anno in più mi serve nella gestione di tutto questo caos.
Magari avessi avuto gli strumenti che ho oggi quando avevo vent’anni! La maturità per me coincide con una sorta di freschezza dal punto di visto intellettuale. A 20 anni sei molto manicheo, è tutto bianco o nero, un’attitudine che ti fa anche osare di più e fare talvolta scelte anche molto coraggiose. A 30 anni si arriva a una visione del mondo più elaborata e complessa, cominci a pensare che non sei più immortale, e questo porta con sé anche l’ansia di non riuscire e del mondo fuori che ti giudica, almeno per me è stato così. A 40 anni invece cominci a tranquillizzarti e ad avere una maggiore consapevolezza di te stessa, come una sorta di ringiovanimento nel pensare e anche nel creare che a 50 anni diventa libertà quasi totale nel poter fare le cose, in questo caso nella scrittura e nella produzione artistica, che ti porta a dare conto solo a te stessa e a nessun’altro.
EP: Napoli e le tue origini sono tornate a essere centrali in questo lavoro, e il ritorno al dialetto partenopeo ne è dimostrazione. Il Vesuvio è quindi diventato un luogo sotto la cui ombra si può trovare riparo e conforto o è pur sempre una costante minaccia da cui bisogna proteggersi?
M: Napoli è fatta di dicotomie: da un lato porta con sé un fuoco creativo che ti spinge a volere realizzare i tuoi sogni dandoti la sensazione che tutto sia possibile, dall’altro ti fa sentire sempre addosso questo senso di precarietà costante, proprio come, simbolicamente, il Vesuvio, che esplodendo potrebbe portarti via in un secondo insieme alle cose a te più care. Questa caratteristica della mia città mi è rimasta nel DNA e quindi anche quando lavoro mi muovo per contrasti: quando produco mi piace magari avere un arpeggiatore dolcissimo e di contro delle batterie elettroniche distorte.
In questo momento della mia vita il Vesuvio mi è di conforto, ogni volta che torno a casa la sua sagoma mi emoziona e mi ricorda chi sono. Il rapporto conflittuale con Napoli è un tratto che porto ovunque e che mi fa vedere il mondo attraverso le lenti di Napoli. Quando conosci certi meccanismi e dinamiche che sono della mia terra il mondo lo guardi attraverso un altro tipo di sguardo, è come se riuscissi sempre a vedere oltre, come attraverso una radiografia. Infatti, da “napolide”, porto sempre con me la fiamma sacra del Vesuvio e, nonostante mi senta sempre una fuggitiva, un’orfana della mia terra, come molti costretta ad andare via da una città che offre poco da un punto di vista lavorativo e di progetti futuri, e a cui sento di non appartenere sotto molti aspetti, il mio sguardo sulle cose è sempre attraverso i suoi occhi.
EP: Il tuo approccio all’elettronica in questo disco mi ha fatto tornare in mente i 99 Posse di “Corto Circuito”, penso soprattutto a electro-ballad come Non ti nascondere, Napolide e Fortefragile, dove l’unione di melodia e groove hanno il potere di trascinare l’ascoltatore in un loop sonoro da cui è difficile staccarsi. Il suono che stavate cercando allora in che cosa si differenzia, o si unisce, a quello di “Vesuvia” oggi?
M: L’approccio che unisce i due album è sicuramente dettato dalla libertà creativa che ti dà l’elettronica. L’elettronica è un mondo musicale fantastico, ricordo quando negli anni ’90 ho iniziato a fare musica e i giornalisti non sapevano come definire questo nuovo genere che stava nascendo e iniziarono ad usare il termine “trip-hop”, per dare l’idea di un suono un po’ tripping che mescolava hip-hop, rap e melodia. L’elettronica ti da questa sensazione di libertà a livello creativo infinita: il fatto che negli anni ’90 siano cadute tutte le barriere musicali di genere è anche grazie all’utilizzo del campionatore, che ti dà la possibilità di campionare brani di ogni tipo e poi far confluire un campione jazz, rock o addirittura di lirica nello stesso pezzo creando un genere del tutto nuovo. E per un’artista questo è esaltante, l’apoteosi del senso di onnipotenza creativa. Ecco, questo approccio non mi ha mai abbandonato. Napolide, ad esempio è formato da un sample di un’opera lirica, un arpeggiatore, emblema della musica elettronica à la Kraftwerk, e poi c’è una ritmica drum and bass: tre mondi diversi che confluiscono insieme in un unico pezzo
In “Corto circuito” producevo già e, ad esempio, in Quello che l’arpeggio è mio, così come il basso e la parte ritmica. In quell’album c’è una parte di me che non mi ha mai abbandonato, è una questione di gusto che, esattamente come lo stile nel vestirsi, rimane una caratteristica personale sempre e nella musica soprattutto è una discriminante. Il mio gusto, seppur evoluto, è lo stesso di quando avevo 20 anni, solo che, mentre allora eravamo 5 teste a ragionare e quindi 5 stili diversi, ora, producendo da sola ogni singolo brano e scegliendo i miei collaboratori in prima persona, si è ovviamente radicalizzato diventando preponderante.
EP: Per il tuo ultimo progetto ti sei avvalsa della collaborazione di tanti artisti giovani (Altea, Alice, SANO e specchiopaura del collettivo napoletano Thru Collected, e NZIRIA, artista hard-neomelodic). Com’è nato l’incontro con questi talenti e cosa ti ha lasciato a livello artistico questa collaborazione?
M: Ho cercato io tutti questi artisti che già seguivo e ascoltavo. Sono state tutte collaborazioni per me molto stimolanti che mi hanno arricchito tantissimo. È stato bellissimo lavorare con queste nuove generazioni perché ti accorgi che, nonostante la differenza di età e di gusti musicali, una volta entrati in studio c’è una sorellanza e fratellanza nel metodo di lavoro e nello stare in studio che accomuna tutti noi musicisti. Devo dire che per questo disco ho lavorato solo con persone che non conoscevo ma che adesso considero tutte mie amiche.
Per “Napolide” ho pensato subito a NZIRIA, artista hard-neomelodic nata in Emilia-Romagna ma con genitori di origini napoletane e che ha imparato il dialetto partenopeo proprio dal nonno. Lei è legata all’etichetta di Gabber Eleganza, musicista italiano che vive in Germania, ed è anche producer. Il suo primo album è quasi del tutto strumentale e spero che nel prossimo ci sia anche la sua bellissima voce. Con lei ci siamo anche confrontate sulla difficoltà di essere produttrici donne nel panorama artistico odierno, dove dietro a una produzione artistica sembra che ci si aspetti sempre una mano maschile.
I Thru Collected, che ho contattato su Instagram, sono stati subito molto entusiasti anche perché miei grandi estimatori e a loro ho proposto Arco e Frecce, il pezzo più destrutturato dell’album. Mi sembrava ideale per loro, una canzone che parla dell’importanza delle parole ed essendo loro un collettivo così libero e fluido mi è sembrato un ottimo campo da gioco in cui incontrarsi. Sono giovanissimi e questa loro freschezza è stata per me un déjà-vu pazzesco, se avessi oggi 20 anni vorrei essere nei Thru Collected! Sia loro, sia i giovanissimi fratelli Fugazza mi hanno fatto un sacco di domande sugli anni 90’ sulla cultura rave nella quale mi sono formata.
EP: A proposito di rave, una delle sottoculture musicali più vitali dell’elettronica anni ’90, ti chiedo se secondo te esiste tutt’oggi e ha ancora valore, dal punto di vista musicale ma anche sociale?
M: Esiste, sì, ma è comunque un movimento meno folto rispetto agli anni ‘90, soprattutto in Italia, dove la situazione nei confronti di queste manifestazioni si è fatta più repressiva. E anzi sono molto spaventata da questa cosiddetta normativa anti-rave ora al vaglio e che spero non venga approvata, perché va a colpire non solo questo tipo di eventi musicali ma anche i raduni spontanei di altro tipo, come scioperi o manifestazioni studentesche. Si tratta di una norma totalmente antidemocratica.
Ricordo quando nei primi anni ’90 mi trovavo in Inghilterra e, visto che allora i cellulari non esistevano ancora, si usavano dei “pizzini” su cui c’era scritto un numero di telefono da chiamare per farti dire luogo e parola d’ordine da comunicare per partecipare all’evento. La musica che veniva fuori durante quegli eventi era bellissima, è stata proprio quella su cui mi sono artisticamente formata.
Quando parliamo di musica rave, stiamo parlando di una di quelle sottoculture che ha cambiato veramente le regole dell’industria musicale, che ha nutrito il pop e che ancora oggi influenza ciò che passa in radio.
EP: All’album hanno preso parte anche due cantanti italiane molto note e in qualche modo distanti dalla tua storia musicale, Emma Marrone e Elisa Toffoli (nel brano Aquila), e anche la pianista di fama internazionale Katia Labèque (nel brano She’s calling me). Com’è stato collaborare con queste artiste e, per il futuro, c’è qualche nome italiano e straniero con cui ti piacerebbe lavorare?
M: Con Katia avevo già collaborato in passato, avevamo partecipato insieme ad un progetto di rilettura di pezzi dei Beatles in chiave elettronica che ci aveva portato anche in tour in giro per l’Europa. Pur facendo parte del mondo apparentemente algido della musica classica, lei è una grande sperimentatrice e ha le mie stesse idee per quanto riguarda i generi musicali. Era tanto tempo che volevamo collaborare. Nel brano She’s calling me she è riferito alla musica, e siccome per me Katia rappresenta LA musica volevo assolutamente che ci fosse lei in questo brano.
Per quanto riguarda invece la collaborazione con Emma ed Elisa è nata pensando proprio ad Aquila, un pezzo sulla sorellanza e sulle amiche, che nella mia vita hanno un’importanza fondamentale e sono di costante ispirazione, spesso proprio grazie al fatto di essere molto o totalmente diverse da me. Per questo mi è venuto in mente di invitare due cantanti così diverse tra loro e da me proprio per sottolineare il concetto di diversità come arricchimento.
Tra gli artisti con cui mi piacerebbe collaborare in futuro c’è Chilly Gonzalez, pianista canadese di adozione berlinese, un artista che spazia da un genere musicale all’altro, mentre in Italia mi piacerebbe lavorare con Ginevra, giovane cantante torinese.
EP: Il modo di fruire la musica è totalmente cambiato rispetto a quando hai mosso i tuoi primi passi artistici a inizio anni ’90. Rispetto ad allora, oggi ti trovi a comprare e ascoltare ancora musica? Da musicista, invece, cosa è cambiato per te con l’avvento del digitale e l’arrivo delle piattaforme on demand?
M: Certo, continuo sempre ad ascoltare musica! Da un anno a questa parte ho anch’io ceduto all’abbonamento Spotify, che prima ho sempre boicottato. Poi se un brano che ascolto mi piace lo compro su ITunes. Con la vita nomade che faccio ora è per me più complicato avere un supporto fisico e quindi mi affido al digitale che posso portare sempre in giro con me. Sono però estremamente felice, ad esempio, per la recente riscoperta del vinile, tanto che per “Vesuvia” abbiamo dovuto stampare molte più copie in vinile rispetto ai cd.
Potrà sembrare un discorso “da nonna”, ma dal punto di vista della ricerca musicale a mio avviso era sicuramente più stimolante andare nel mio negozio di dischi di fiducia e farmi consigliare dal venditore questo o quell’album in base ai miei gusti, oppure andare alla ricerca del bootleg del mio artista preferito, quindi un livello “fisico” di esperienza e non virtuale.
Dato che per un musicista le fonti di introito sono principalmente due, i live e la vendita di dischi, diciamo che il digitale ha praticamente azzerato quest’ultima. Questo rende anche molto più difficile il nostro lavoro, perché significa ricevere meno soldi dalle etichette e quindi ti esclude la possibilità, ad esempio, di avere i collaboratori più ambiti o gli studi e i tecnici migliori per lavorare.
Dal punto di vista lavorativo i musicisti della mia generazione sono in grandissima difficoltà, perché se non “streammi” sulle piattaforme praticamente non esisti. Anche artisti grossi, come ad esempio i Radiohead, all’inizio avevano provato a sfilarsi ma sono dovuti scendere a compromessi.
Pandemia e crisi economica poi ci ha messo del loro, mandando in dissolvenza i live e mettendo in seria difficoltà artisti anche di un certo livello, come nel recente caso di Santigold, che ha dovuto annullare il tour per i costi insostenibili.
Altro discorso per i giovanissimi, che dalle piattaforme streaming possono ricavare un’opportunità: sicuramente non venderanno, però almeno in questo modo potranno avere la possibilità di ottenere un contratto con un’etichetta e di fare poi dei live.
EP: A proposito di live, quando porterai “Vesuvia” in tour ?
M: A inizio 2023.
EP: Per chi è cresciuto negli anni ‘90 questa domanda è doverosa (per tutti gli altri c’è Spotify): ci puoi dire la tua personale Top Five degli album che più di tutti hanno influenzato il tuo percorso musicale?
M: Per me sono:
- The Beatles, “The white album” (1968)
- Michael Jackson, “Thriller” (1982)
- Laurie Anderson, “Big Science” (1982)
- Massive Attack, “Protection” (1994)
- The Prodigy, “Experience” (1992)
EP: Oltre che musicista, sei anche produttrice con la tua etichetta discografica Multiformis. Hai progetti in cantiere? Se sì, ci puoi dare qualche anticipazione?
M: Ho delle cose nel cassetto che in futuro vorrei fa uscire ma in questo momento sono concentrata su “Vesuvia”. Non escludo tra l’altro che qualche progetto possa anche essere pubblicato con Asian Fake, l’etichetta con cui è iniziato un sodalizio con la pubblicazione del mio ultimo album.
EP: Un’ultima domanda, che per antonomasia è sempre la più naif. Sei da sempre molto schiva e riservata sulla tua vita privata, mentre sui social, in particolare Instagram, ti concedi molto ai fan. Come fai a conciliare la tua indole con questa esigenza, che è ormai diventata parte integrante del lavoro di ogni artista?
M: Mi concedo molto? Dici? (ride) Le persone con cui lavoro mi vorrebbero molto più social con dirette e video ma io sono ancora molto restia. Vedo il mondo dei social network come uno strumento di lavoro, e mi fanno un po’ paura quelli che condividono ogni istante della propria vita, mi lasciano quasi un senso di solitudine, ma questa è una mia personale sensazione, ognuno è libero di mostrarsi come crede.
Mi piace però molto rispondere e interagire coi fan, il lato positivo dello stare sui social è sicuramente per me quello di poter parlare in prima persona del mio lavoro, direttamente con le persone e senza intermediari.
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