La domanda che ci facciamo oggi è: la vecchia musica sta ostacolando quella nuova (per non dire “la sta uccidendo” come scritto da qualcuno)?
«L’era pop in cui viviamo è impazzita per tutto ciò che è rétro e commemorativo. Gruppi che si riformano, reunion tour, album tributo e cofanetti, festival-anniversari ed esecuzioni dal vivo di album classici: quanto a passione per la musica di ieri, ogni anno supera il precedente.
Simon Reynolds (da “Retromania. Pop culture’s addiction to its own past”, 2011 – Edizione italiana a cura di Minimum Fax, 2017)
E se il pericolo più serio per il futuro della nostra cultura musicale fosse… il passato?»
Ted Gioia, in un articolo intitolato “Is Old Music Killing New Music?”, scrive che «le vecchie canzoni rappresentano il 70% del mercato musicale statunitense, secondo i dati della società di analisi musicale MRC Data». Il critico e storico musicale continua così: «Le ragioni sono complesse, più del semplice fascino dei vecchi brani, ma il risultato finale è inconfondibile: mai prima d’ora nella storia nuove tracce hanno raggiunto lo status di hit generando così poco impatto culturale. In effetti, il pubblico sembra abbracciare in massa i successi dei decenni passati. Il successo è sempre stato di breve durata nel mondo della musica, ma ora non ha quasi un’increspatura sulle capacità di attenzione del mercato di massa».
Bonnie Stiernberg ha un’opinione del tutto diversa e sostiene che il dato presentato da Gioia è fuorviante per due motivi principali. Il primo è che «nel database di MRC solo le canzoni pubblicate negli ultimi 18 mesi vengono classificate come “nuove”, quindi le persone potrebbero plausibilmente ascoltare molte canzoni di due anni fa, piuttosto che di 60 anni fa. E infatti le 10 canzoni più ascoltate in streaming della storia di Spotify sono state tutte pubblicate tra il 2017 e il 2019 e bisogna arrivare fino al numero 24 (Bohemian Rhapsody dei Queen) prima di trovare una canzone precedente a questo decennio». L’altro motivo è legato al fatto che «i 200 nuovi brani più ascoltati rappresentano meno del 5% degli stream totali».
In realtà, se pensiamo a cosa sta succedendo nel mondo musicale, la tendenza sembra essere proprio questa: le etichette stanno perdendo interesse per la nuova musica o la considerano meno redditizia rispetto ad un tempo. Meglio affidarsi al vecchio, conosciuto e rassicurante insieme di canzoni di una volta. Con quelle, a quanto pare, non si sbaglia mai.
La sensazione che abbiamo è dovuta principalmente ad alcuni aspetti che andremo a indicare brevemente qui di seguito.
La corsa ai cataloghi
Le società di investimento e le grosse etichette discografiche stanno cercando di accaparrarsi in blocco i diritti d’autore di vecchi artisti di un certo calibro. La lista è lunga, dalla Universal che ha acquistato tutto il catalogo di Bob Dylan per 300 milioni di dollari a Bruce Springsteen che ha ceduto i diritti di tutto il suo catalogo alla Sony Music per 500 milioni di dollari.
Secondo una stima di MusicBusinessWorldwide nel 2021 sono stati spesi almeno 5 miliardi di dollari per acquisizioni di diritti musicali e di catalogo. Quasi la metà di questa somma è stata spesa per l’acquisizione di diritti direttamente da artisti, cantautori e/o dalle loro proprietà.
Il 2022 si è subito aperto con l’acquisto da parte di Warner Music dei diritti dell’intero catalogo di David Bowie per 250 milioni di dollari. Pochi giorni fa Sting ha venduto il suo catalogo musicale alla Universal Music.
Il problema del vinile
Negli ultimi anni il vinile ha avuto una rinascita. Rimane un formato con i suoi ben noti limiti, di cui ne abbiamo parlato esaustivamente in un precedente articolo. Ora c’è un problema ben chiaro: la domanda è troppo alta, l’offerta è bassa.
«Un tempo erano solo le persone anziane a comprare dischi, ma ora abbiamo anche un’intera nuova generazione di consumatori digitali più giovani che hanno fame di copie fisiche» spiega Shaks Ahmed, proprietario e manager del negozio di dischi londinese Shaks’ Stax Of Wax.
È oramai nota la limitata capacità di produzione dell’industria del vinile. Parecchi impianti sono stati chiusi, anche per colpa della pandemia, quelli aperti (situati soprattutto in Europa centrale, che sono anche più economici di quelli Usa) non riescono a soddisfare le richieste in tempi brevi: se prima si parlava di circa 6 settimane, adesso si è arrivati a tempi di attesa anche di 6 mesi. Creare nuove fabbriche di stampa è difficile, i costi di filiera sono alti e gli impianti sono inquinanti e tutt’altro che ecosostenibili. Ed è anche rischioso: il boom potrebbe rivelarsi temporaneo e non sufficiente per coprire gli investimenti. Inoltre le competenze per far funzionare questi impianti sono oramai in mano a pochi: «Non ci sono abbastanza persone qualificate nel settore» spiega Jeff Bell della Partisan Records.
L’altro aspetto collegato è la crisi delle materie prime, in particolare del pvc di cui sono fatti i dischi in vinile. A causa di ciò le risorse materiali sono state accaparrate e messe da parte per le infinite e continue ristampe di vecchi cataloghi. «Le grandi etichette hanno invaso il mercato dei vinili, in molti casi stanno pressando robaccia per la quale non c’è una reale domanda», afferma Adam Scrimshire, co-proprietario della indi label Wah Wah 45s.
Pochi dischi nuovi hanno la possibilità di avere una buona produzione e distribuzione in vinile, principalmente quelli spinti commercialmente in modo grandioso da qualche major, che rimangono le uniche dotate di forza economica per investire. Volete un esempio? I dischi più venduti nel 2022 in formato vinile sono “30” di Adele, “Sour” di Olivia Rodrigo e “Red (Taylor’s Version)” di Taylor Swift.
Chi subisce principalmente la situazione sono le piccole etichette e gli artisti meno quotati dal punto di vista commerciale ed economico. L’obiettivo è restare a galla ma hanno enormi problemi nel proporre un prodotto commercialmente appetibile (un nuovo album in formato LP) per la mancanza di possibilità: le loro tirature sono basse e le richieste alle fabbriche scivolano immancabilmente in secondo o terzo piano. Agli stampatori conviene accettare le richieste delle major per motivi di volume e di sicurezza economica, tutte le altre richieste vanno in coda e non sono una priorità.
L’invasione delle ristampe
Ristampe identiche agli originali, edizioni deluxe piene di bonus track spesso inutili, cofanetti celebrativi, anniversary edition, platinum collection e continui remaster solitamente di qualità inferiore agli originali sono oramai all’ordine del giorno e finiscono per intasare quel panorama musicale già saturo che abbiamo descritto poco sopra.
L’importanza di questo mercato è evidente anche dalla risposta di siti e giornali musicali, che hanno vere e proprie rubriche riguardanti le millemila ristampe che escono (citiamo su tutte la storica rubrica “Retropolis” di Rumore). Non si contano le classifiche di fine anno dedicate a queste uscite, ad esempio quella di Popmatters che elenca i 35 best album re-issues del 2021 (trentacinque!).
Anziché comprare nuove uscite di nuovi artisti, si ricomprano edizioni nuove spesso uguali nella sostanza se non addirittura di qualità inferiore all’edizione originale e con un range dinamico tagliato (si cerca di adattare una produzione precedente alla situazione attuale che soffre di quel fenomeno chiamato loudness war, ne abbiamo parlato diffusamente in questo articolo) e che sostanzialmente non dicono nulla di nuovo.

Questa non è certo una novità dell’ultimo anno. In un articolo di Gavin Haynes, scritto nel 2017 per il Guardian e intitolato “The reissue racket: how many more ‘classic’ albums will be repackaged?”, viene citato un gustoso aneddoto:
Quando una ristampa deluxe di “Come Find Yourself”, il disco di debutto di Fun Lovin’ Criminals, è arrivata sulla scrivania del giornalista di “Record Collector” Jamie Atkins, ha iniziato a sospettare che ci fosse un problema culturale.
«In ufficio abbiamo effettivamente scommesso su quante versioni di Scooby Snacks ci sarebbero state», dice.
Erano nove versioni.
Per correttezza di informazione vi diciamo che in questa edizione ce ne sono “solo” sette.
Qualche conclusione
Insomma, è chiaro che le vecchie canzoni portano soldi e lo fanno in modo facile, senza grossi rischi, senza dover metterci la testa per sperimentare, innovare, trovare soluzioni nuove, anche a livello di music business. È tutto pronto, è una scommessa già vinta. Gli investimenti che vengono fatti per la musica vecchia sono molto alti e ovviamente tolgono spazio, soldi e attenzione a quanto di nuovo potrebbe uscire.
Questo viene implicitamente (ma a volte pure esplicitamente) supportato dall’atteggiamento di tanti ascoltatori che sono convinti del «non c’è più la musica di una volta», che «oggi la musica è brutta, ma un tempo sì che c’erano belle canzoni», che «il rock è morto» e via dicendo. Questa fuga dalla realtà non è nuova: è un ritorno ciclico che quasi ogni generazione dice a proposito della musica di quelle successive. Ok boomer.
Chi è appassionato e curioso sa bene quello che succede davvero: ogni anno esce tantissima nuova musica, a volte poco interessante, a volte invece di grande qualità, spessore e coraggio. Band e artisti che non vengono però considerati dall’industria musicale e che nella maggior parte dei casi faticano a farsi conoscere. È un problema risaputo ed è un cane che si morde la coda: la mancanza di curiosità e di una cultura musicale diffusa fa sì che la gente si rifugi nella vecchia musica (che è quello che succede quando ci si interroga sull’esistenza di cover e tribute band, ne parleremo approfonditamente in un articolo quanto prima). Contemporaneamente il music biz segue a ruota buttandosi dove c’è la massima resa e il minor rischio imprenditoriale.
Ora abbiamo una serie di domande che ci facciamo, guardando al presente e pensando al futuro.
Ad esempio partiamo dal problema maggiore, quello del formato: se il vinile è diventato inaccessibile per piccole etichette e nuovi artisti, quale potrebbe essere una soluzione? Possiamo immaginare un’evoluzione del formato fisico? Oppure l’alternativa rimarrà lo streaming, meccanismo squilibrato e non etico, che ingrassa major e distributori e affama gli artisti? Questo confermerebbe che l’unico modo per sopravvivere economicamente è ricorrere al merchandising e ai concerti.
Il ritorno del cd è auspicabile visto che i suoi tempi di produzione rimangono veloci (si parla di 10-20 giorni) sebbene anche in questo caso il problema dell’ecosostenibilità si faccia sentire?
La cassetta può essere un’ulteriore alternativa valida o resta un vezzo da hipster?
E soprattutto: ci sarà un cambio di paradigma nell’industria discografica?
Staremo a vedere.