Una intervista ad Alessio Ferrari sulla nascita del suo progetto “in stalla” e sull’importanza di sbagliare.

La scoperta di Upupayāma è stata come l’arrivo di un’astronave da un pianeta lontano, una completa novità pure per chi di certe sonorità si nutre abitualmente. Il suo disco di esordio del 2020 è stato più che sorprendente: di certo l’alone di mistero verso chi si celasse dietro il progetto, considerando che al tempo la pagina Bandcamp riportava poche e sparute informazioni, ha contribuito ad aumentare l’interesse ed è stato quasi motivo di orgoglio scoprire che è tutto opera di un unico musicista italiano. Dopo mesi di ascolti appassionati, l’acquisto di una splendida versione vinilica realizzata da Cardinal Fuzz e una entusiasmante esibizione dal vivo, abbiamo avuto l’opportunità di scambiare quattro chiacchiere via e-mail con Alessio Ferrari.

EP: Ciao Alessio, è stato un vero piacere scoprire che fosse un nostro connazionale a dar vita al progetto Upupayāma. Hai voglia di presentarti descrivendoci un po’ il tuo background, musicale e non, i tuoi progetti precedenti e la genesi di Upupayāma?

AF: Ciao Pierdomenico, innanzitutto grazie. Inizierei dicendo che suono senza alcuna preparazione musicale da quando ho 13 anni. Avevamo una scordatissima chitarra classica in casa, mio fratello mi aveva fatto ascoltare qualche musicassetta di musica punk e da lì è nato tutto, soprattutto la mia voglia di ascoltare tanta musica, ma anche e forse soprattutto di suonarla. Da lì ho suonato in qualche gruppo, non tanti a dire la verità, in cui ho suonato di tutto, dal punk all’hardcore, dall’indie più “tranquillo” fino a progetti di vero, proprio e puro rumore allo stato brado. È stato interessante, tutto insegna. Quindi, come puoi ben capire, una storia non originalissima.
Riguardo al mio background fuori dalla musica, sono laureato in lingue e svolgo un lavoro che nulla ha a che fare con la musica, ma che comunque mi piace e mi dà la possibilità di svolgere le mie giornate in maniera “zingara”, come uso dire spesso.
Riguardo invece alla genesi di Upupayāma, che dire? Ascolto di tutto da quando ho 16/17 anni, prima ero un po’ più quadrato, ma il genere che si definisce psichedelia è l’unico che secondo me ti può dare la possibilità di fare ciò che vuoi quando ti pare, quindi l’ho sempre sentito molto mio. Era da un annetto che avevo appunti di canzoni, riff, melodie, suoni da parte in una cartella del mio Mac. Nell’inverno 2019, qualche mese prima del lockdown, ho iniziato a metterci mano. Sentivo che avevo raggiunto la consapevolezza musicale che cercavo da sempre, quella sensazione che mi diceva “hai gli strumenti per fare quello che vuoi fare” e quindi ho cominciato a comporre i pezzi del primo album. Dopo è arrivato il lockdown e ho sfruttato il momento per lavorarci più seriamente e in maniera più profonda. Le aspettative erano molto umili: registrare un disco, punto. Quel che sarebbe venuto dopo non l’avevo minimamente preso in considerazione. Finito di registrare il tutto, ho ascoltato le versioni grezze, ed erano parecchio grezze, e mi sono piaciute tantissimo. Preso dall’euforia ho scritto a Yui Kimijima [produttore e ingegnere del suono giapponese, di cui si parla approfonditamente più avanti, ndr], una sorta di mastro artigiano del suono venuto da un altro pianeta, chiedendogli se aveva voglia di lavorare alla messa a punto di un disco registrato in una stalla sugli Appennini di Parma. Gli ho scritto giusto per, non mi aspettavo nemmeno mi rispondesse. E invece nel giro di qualche ora mi ha risposto molto entusiasta e abbiamo lavorato per tirare fuori il meglio da quei suoni. Ero fuori di testa, l’ingegnere del suono di uno dei miei dischi della vita [“House on The Tail Grass” dei Kikagaku Moyo, ndr] stava lavorando insieme a me al mio disco. Da lì poi ho messo tutto online, dapprima su Bandcamp e qualche mese dopo sulle altre piattaforme. Il disco ha iniziato a circolare, blog, webzine ecc, sono arrivate le recensioni e poi Cardinal Fuzz e Centripetal Force hanno creduto fortemente nel progetto. Due tra le mie etichette preferite me lo pubblicavano. BOOM! 

EP: Parlando del nome del progetto, anch’esso ha contribuito all’alone di mistero misto a curiosità, mischiando un suffisso giapponese che sta per montagna al nome di un volatile che però di montagna non è. Se ho ben capito la parte “montanara” deriva anche dal posto in cui vivi e produci? Mi piace pensare che, essendo “upupa” un nome derivato dal verso dell’animale, abbia una connessione recondita con il tuo cantato in una lingua misteriosa.

AF: Sì, assolutamente, hai centrato il punto. Appena prima del lockdown mi ero spostato per varie ragioni in una casa che ho sugli Appennini parmensi. È arrivato il lockdown e ci sono dovuto rimanere, da lì ho deciso di fermarmi. Non credo sarà una cosa definitiva, ma per il momento sto lì, ci sto molto bene. Detto questo, sì, cercavo un nome musicale che già pronunciandolo desse quella sensazione di surrealtà propria del mio cantato, che avesse un significato, scusa la ripetizione, surreale, ma che al tempo stesso rimanesse aperto all’interpretazione di ognuno. Magari qualcuno in “Upupayāma” ci vede un orso buono, qualcun altro il rumore della pioggia e via dicendo. Come nella mia musica, mi piace pensare che non abbia una strada tracciata da me, ma che sia uno spazio aperto in cui l’ascoltatore ci vede, ci vive e ci fa ciò che vuole. 

EP: A completare la sensazione di stupore ha concorso, per quanto mi riguarda, anche lo scoprire che il deus ex machina del progetto è anche l’unico musicista dietro tutti gli strumenti e al canto. Come avviene la genesi dei pezzi? Prediligi uno strumento in particolare?

AF: No, a volte il tutto parte da un giro di basso, a volte da una jam session in cui faccio “volare” il mio looper. A volte mi capita che sono in macchina o sto camminando e mi registro un ritmo di batteria facendo “ptciù ptciù” con la bocca tipo beatbox, o a volte anche solo un’idea di suono che mi viene appena prima di addormentarmi. Da lì poi nasce tutto. Ho un approccio molto punk da “buona la prima”, difficile che una volta che la canzone viene scritta e composta venga cambiata, è capitato forse due volte. Non ho nemmeno un metodo: per esempio in una canzone del nuovo album ho registrato prima tutta la chitarra solista e poi tutto il resto è venuto da sé. All’inizio non aveva assolutamente un senso, ma poi lo ha trovato ed è stato bellissimo. Non avendo preparazione teorica e nemmeno troppo tecnica non posso pretendere di avere una metodologia, ma in tutta onestà nel mio caso questa cosa la vedo come un pregio. 

La copertina dell’omonimo album “Upupayāma”, pubblicato a novembre 2020.

EP: La prima “suggestione”, vedendo la bellissima copertina del disco e il nome seminipponico, nonché, tra le poche info presenti, il nome dell’ingegnere di mixing e mastering Yui Kimijima, produttore del loro “House in The Tall Grass”, per non parlare di certe evidenti sonorità e atmosfere, ad esempio l’uso del sitar, portano inevitabilmente a un nome di ispirazione: quello dei Kikagaku Moyo. Scontato chiederti se ti piacciano, vorrei chiederti invece se hai mai avuto occasione di vederli dal vivo [hanno pubblicato da poco il nuovo disco “Kumoyo Island” e stanno concludendo il loro ultimo tour, a meno di ripensamenti futuri, ndr] e se hai mai pensato o quantomeno sognato di collaborarci? Pensi che loro, inoltre, conoscano il tuo progetto?

AF: Sì, li ho visti dal vivo due volte qui in Italia e mi hanno letteralmente mandato ai matti. La prima volta che li ho ascoltati ho pensato che finalmente avevo trovato la band che cercavo da sempre. Le sensazioni che mi suggerivano, i loro suoni, le immagini che mi mettevano davanti erano, ripeto, quello che in musica cercavo da anni. Poi li ho visti dal vivo e hanno confermato ancora di più le mie già bellissime impressioni su di loro. Ho detto “finalmente una band che suona come si deve suonare dal vivo!”, improvvisando, perdendosi per poi ritrovarsi, sbagliando, per carità, perché siamo esseri umani e sbagliamo. Non credo infatti che il loro sia un semplice concerto, ma una vera e propria esperienza, ed è un discorso che sogno di portare avanti anch’io nel mio piccolissimo.
Ho parlato con Go Kurosawa, il batterista, in uno scambio di email non appena è uscito il mio album in cui mi ha dato dei consigli preziosi per la mia musica. Gli avevo chiesto se aveva ascoltato il disco ed è stato di una gentilezza commovente. E comunque sì, mi piacerebbe lavorare un giorno con lui e Tomo Katsurada, il chitarrista, quello senza barbetta. Non che gli altri non mi stiano simpatici, ma trovo che ci sarebbe più affinità musicale con loro due. Se e quando cambierò modo di lavorare, ossia il voler fare tutto da solo, saranno le prime persone a cui mi rivolgerò. E prima o poi lo cambierò, questo mio modo, per nessun motivo particolare se non per far sì che il progetto Upupayāma evolva e cresca e cambi proprio come tutto nell’universo.

EP: Tornando all’artwork, opera di Daniel Onufer che è anche l’unico altro musicista accreditato sul vinile (batterista solo sul brano Hopsa-japapé), sembra che estenda e amplifichi l’immaginario di Upupayāma: colori, animali ed elementi della natura, riscontrabili anche nei titoli dei brani. Da tutto parte di un disegno preciso e coerente o alcune scelte sono più casuali?

AF: In realtà è proprio ciò che volevo comunicare già dall’artwork e dai titoli, nonché dalla musica. Sintetizzerei il tutto con “musica per parlare con gli alberi”. Ovviamente poi tutto deve avere coerenza, dall’artwork ai titoli delle canzoni. Ora non voglio però nemmeno essere inquadrato come un santone o un San Francesco millennial che parla con gli uccelli e vaga per boschi alla ricerca di chissà quale significato, ma un filo che collega ciò che faccio alla natura, ai suoi elementi, ai suoi umori c’è ed è sempre presente. Poi c’è tanto altro: influenze musicali, anche storie e contesti più urbani.
Per rispondere meglio alla tua domanda direi che però non studio nulla a tavolino, i titoli per esempio spesso saltano fuori in modo casuale, magari da un pensiero di mezzo secondo, magari da una frase capita male, da un’illustrazione trovata per caso. Noto adesso che già leggendo i titoli ci si ritrova in un luogo, poi, come dicevo prima, sono luoghi sempre diversi da ascoltatore ad ascoltatore. 

EP: Parlando di psichedelia contemporanea, “neopsichedelia” o come preferisci, ti senti in qualche modo parte di un movimento? Di avere cose in comune con artisti che vivono sulle stesse frequenze? Penso, per restare in Italia a La Piramide Di Sangue, Gianni Giublena Rosacroce, Trans Upper Egypt o anche Al Doum & The Faryds, progetti da vibrazioni “oltre le porte della percezione”, con alcune influenze più “speziate”? [abbiamo accennato alla Italian Occult Psychedelia nell’articolo “La magia della musica”, a cura di Ida Stamile, che potete recuperare qui]

AF: Ti dirò, siamo talmente “all’inizio” che faccio fatica a rispondere. Sicuramente abbiamo tanti ascolti in comune e senza dubbio c’è un’idea di musica che ci accomuna. La cosa certa è che in Italia stanno nascendo delle realtà veramente interessanti.

EP: Penso comunque che nel tuo background ci sia anche tanta psichedelia “classica” e non solo. Ad esempio mi son convinto di sentire una citazione di Happiness is a Warm Gun in Hopsa-japapé, e vista l’attenzione che c’è stato anche nell’artwork, ti chiederei qualche tuo nome di riferimento anche in campo visivo, cinematografico e letterario.

AF: Sì, di psichedelia classica ce n’è, Grateful Dead su tutti! Credo che “Live/Dead” sia un disco pazzesco, l’ho letteralmente consumato. Su Hopsa-japapé hai fatto un bell’accostamento a cui non avevo mai pensato, ma concordo con te sul fatto che sembri un brano di rock classico.
Per quanto riguarda riferimenti in ambito cinematografico ti stupirò: il mio regista preferito è Aki Kaurismaki. Ha la capacità di rendere sublime anche una persona che sputa per terra. Seppur i suoi film hanno questa meravigliosa drammaticità, mi “scaldano”, mi rincuorano, non so in che altro modo dirlo. Poi amo Antonioni, Leos Carax e, sarò molto banale, ma guardo anche le serie tv: “Stranger Things” mi ha fatto impazzire.
Sul lato letteratura leggo veramente di tutto. Ad esempio è un periodo, e non so perché, che sto leggendo un sacco di roba sulle spedizioni polari della prima metà del ‘900, quelle di Amundsen e il disastro del dirigibile “Italia” guidato da Umberto Nobile. Perché lo sto facendo? E chi lo sa. Anche se uno dei miei autori preferiti è José Saramago. Ma poi vado a periodi: c’è stato un periodo in cui leggevo solamente Stephen King, uno in cui esistevano solo Philip Dick e Stanislaw Lem, uno Dickens, un altro Roberto Bolaño. Dipende, direi che sono onnivoro, leggo veramente di tutto.
Lato invece visivo sono parecchio ignorante, direi però che ho sempre amato l’impressionismo e il surrealismo, ma guardo tantissimo anche ad illustratori attuali. Tra i preferiti ci sono Slimesistren, Sophie Hollington, Gill Waynor. A proposito, a volte mi capita di accendere il pc, mettermi davanti ad una loro illustrazione e iniziare a suonare. Direi che ho un debito verso tanti illustratori!

EP: Devo la scoperta del tuo disco ad una webzine a tema neopsichedelia che però ora neanche saprei ricordare con certezza, forse The Fragmented Flaneur o The Psych Rock, agli inizi dello scorso anno: conosci queste realtà o anche loro hanno avuto naso fino nell’arrivare al tuo album? O forse può esserci stato lo zampino di Cardinal Fuzz? Come sei entrato in contatto con Dave Cambridge e come è nata la vostra connessione? Avevi contatto o eri stato contattato da altre etichette? Penso alla truppa italiana (Lay Llamas, Mamuthones, Julie’s Haircut) in scuderia Rocket Recordings. Inoltre, conosci o suggeriresti qualche album in particolare pubblicato dalla label?

AF: Ti dirò, quando ho registrato il primo album non avevo nessuna pretesa e (ma forse questo è un mio difetto), pensavo che se lo avessero ascoltato in quindici persone e apprezzato in tre sarebbe già stato realizzare un sogno. Lo inviai a due, massimo tre etichette, ma giusto per avere un parere. Non mi rispose nessuno. Dopo poco ho cominciato a notare che se ne parlava sui social, poi su qualche webzine ecc. Da lì sono stato contattato da qualche etichetta, ma avevo fiducia che qualcuno con una “linea editoriale” più simile alla mia sarebbe saltato fuori, e infatti una bella mattina mi sveglio e leggo questa mail di Cardinal Fuzz e Centripetal Force che mi propongono di lavorare insieme.
Da lì in poi la voce si è sparsa. Ho avuto contatti anche con Rocket Recordings, etichetta che amo alla follia. Ho però voluto continuare, per questo secondo album, con Cardinal Fuzz e Centripetal Force per un motivo molto semplice: hanno creduto fino in fondo e fin dall’inizio ad un matto che si è registrato un disco in una stalla. Per questo secondo album si sono sbattuti incredibilmente spingendosi dove non si erano mai spinti. Mi sembrava giusto ricambiare la fiducia e la genuinità. Poi un domani chi lo sa.

EP: Sono venuto a sapere fortunatamente del tuo concerto al 30Formiche di Roma a maggio scorso solo poche ore prima e non avrei proprio potuto perderlo, nonostante ritenga una grossa cavolata il fatto che tu abbia suonato in un pur ottimo locale quando a un paio di chilometri di distanza si teneva il sempre apprezzabile Rome Psych Fest in cui sicuramente ti saresti trovato a tuo agio (e magari sareste stati un po’ più larghi sul palco), assieme ad artisti nostrani come Blak Saagan e Omega Mai o stranieri come Yin Yin. Personalmente, non sapevo cosa aspettarmi dal live, a maggior ragione pensando a un disco realizzato da un unico musicista: è stata un’esibizione spaziale, avvolgente, potente e mesmerizzante, con una band che sembrava già ben rodata, incredibile pensare che fosse la vostra data “zero”. Che sensazione avete avuto? Quanto tempo ci hai messo ad assemblare il gruppo? So che avete tenuto un altro concerto nella “vostra” Parma e avete già in programma qualche data europea, sei soddisfatto della resa finora?

AF: Il primo concerto a Roma è stato divertentissimo! Onestamente? Nemmeno io sapevo cosa aspettarmi. Mi spiego meglio: provavamo da due mesi, due mesi intensi in cui abbiamo dovuto imparare i pezzi. Dico “dobbiamo” perché anch’io ho dovuto imparare a suonarli in un contesto di band. Dopodiché abbiamo voluto dargli un taglio live, ovvero estrapolarli dal contesto “disco” e trasporli in una dimensione live che, nelle mie/nostre intenzioni, è totalmente diversa. Abbiamo voluto fin dall’inizio che il live fosse più un’esperienza che un concerto per il pubblico.
Non amo i concerti in cui la band suona i brani pari pari come su disco, mi piace quando prendono strade diverse, quando sbagliano sul palco perché credo che questo crei una connessione profonda col pubblico. E questo a Roma è successo e lì ho capito che eravamo e siamo sulla strada giusta. Non avevo timori di sorta perché la band è composta da musicisti superlativi, questo lo devo dire.
Assemblare il gruppo è stato inaspettatamente facile e veloce. Già da tempo mi sentivo col Mazzo, la chitarra solista. Ci conoscevamo di vista. Premetto che non sono mai stato un viveur, tanto che vivo in un paesino di un centinaio di anime. Era qualche mese che mi sentivo col Mazzo, lo avevo contattato per chiedergli se gli interessava prendere parte ad un progetto che sulla carta poteva essere molto interessante. Mi ha risposto subito di sì! Lui, a differenza mia, conosce milioni di musicisti. Da lì qualche giro di telefonate, un po’ di birre tutti insieme per parlare del tutto e dopo qualche mese abbiamo iniziato. È passato qualche mese per colpa mia, sono un tardivo, ho bisogno di riflettere sulle cose, voglio farle bene.

EP: II vostro concerto ha avuto luogo solo pochi giorni dopo quello di Sonic Boom, nello stesso locale a Roma e i vostri dischi, entrambi usciti nell’annus horribilis 2020, per chi scrive sono stati davvero occasione per notevoli fughe da fermo in un periodo difficile, pertanto è stato bello poter “celebrare” questo new normal con altrettanti concerti “mind-expanding” in così poco tempo. Mi chiedevo se quel periodo del 2020, tuttavia, sia stato per te occasione ulteriore di scrittura e creazione di nuova musica.

AF: Decisamente sì, è brutto dirlo, ma quel periodo è stato prezioso per me. O meglio, ho cercato di sfruttarlo e mi ha dato la possibilità di mettere in cantina una marea di materiale nuovo, che fossero idee, schizzi di canzoni e tutto quel che segue. 

EP: Ti va di darci qualche anticipazione sul nuovo disco? Sarai ancora una volta unico protagonista anche come esecutore o hai “delegato” qualche parte ai membri della live band?

AF: “The Golden Pond” è sicuramente un disco più divertente, più arioso e più vario anche in termini di scrittura, di influenze e di paesaggi sonori. Senza scadere nel solito cliché, lo trovo più maturo, più consapevole di sé stesso. Anche in questo caso ho composto e suonato tutto da solo a parte la batteria in un brano, in cui è suonata da Sheila Bosco, grandissima batterista dei Dire Wolves.
Potrà sembrare un discorso snob, ma mi trovo meglio in questa dimensione “solitaria”. Ho un grande limite: faccio fatica a lavorare in gruppo, mi perdo, non riesco a rimanere concentrato. È un limite che voglio superare anche perché vorrei registrare qualcosa in modalità corale, anche e soprattutto perché gli altri componenti della band sono tecnicamente molto migliori di me.
Detto questo, se il primo album era una sorta di viaggio, questo secondo è un album che è entrato in un luogo e lo ha esplorato in lungo e in largo con calma e dedizione.

“The Golden Pond”, il nuovo album di Upupayāma, verrà pubblicato a novembre su Cardinal Fuzz (UK/EU) e Centripetal Force (USA), è possibile ascoltarne il primo estratto Màs: