Musicista e produttore di celebri artisti del pop italiano e internazionale, Rustici approfondisce vari temi e ci racconta i suoi progetti presenti e futuri.

Con pochi dubbi, possiamo definire Corrado Rustici uno dei personaggi più importanti e influenti della musica popolare del nostro paese (pur avendo, di fatto, vissuto pochi anni in Italia), grazie alle sue capacità esercitate nel ruolo di autore e produttore e aver contribuito in maniera determinante al successo di alcuni tra i più noti artisti del pop italiano degli ultimi 35 anni.

La sua attività di produzione ha avuto risultati di assoluto rilievo anche negli Stati Uniti, dove ha prodotto album di artisti epocali (vi dicono niente Whitney Houston, James Brown o Aretha Franklin?).

Corrado è inoltre un gran chitarrista e sperimentatore. Negli anni ha suonato con diverse band e anche da solista, pubblicando album dall’alto tasso di sperimentazione.

Un grande artista a tutto tondo che abbiamo il piacere e l’onore di ospitare sulle pagine di Extended Play.
Per chi ancora non lo conoscesse, prima di lasciarvi alla nostra chiacchierata, ripercorriamo brevemente le tappe della sua incredibile carriera. 

Corrado Rustici nasce nel 1957 a Napoli. A soli 5 anni impara a suonare il mandolino della nonna, mentre a 9 si cimenta con la chitarra del fratello Danilo (che di lì a pochi anni formerà gli Osanna, tra i gruppi più importanti del prog italiano).
Intorno ai 14 anni Rustici si innamora del progressive rock e a soli 16 anni forma la sua prima band, i Cervello, con i quali pubblica “Melos” (unico lavoro del gruppo, molto ricercato e apprezzato ancora oggi dagli estimatori del prog italiano e mondiale).

Narada Michael Walden, Clarence Clemons e Corrado Rustici (Facebook)

Subito dopo si trasferisce con il fratello Danilo a Londra, dove insieme formano la band jazz-rock Nova, con cui pubblicano quattro album tra il 1975 e il 1978. Gli album hanno un buon successo e permettono inoltre a Corrado di conoscere Narada Michael Walden, figura che sarà fondamentale nella sua carriera.
Poco prima di pubblicare l’ultimo album con i Nova, Corrado si trasferisce negli Stati Uniti, accettando proprio l’invito di Walden che lo voleva a San Francisco per formare una band e un team di produzione (che più tardi includerà anche Randy Jackson, David Sancious e Walter Afanasieff).
in pochi anni il gruppo produce un gran numero di album e di hit internazionali per artisti quali Whitney Houston, Aretha Franklin, James Brown, Herbie Hancock, George Benson e molti altri.
Per Rustici l’esperienza si traduce in una scuola di valore assoluto.

Dopo tali successi, in maniera del tutto imprevista (mentre è in vacanza in Italia), entra in contatto con l’ambiente del pop italiano venendo coinvolto da Elio D’Anna (amico e compagno di band nei Nova) che gli chiede un aiuto per produrre un ragazzo che ha scoperto e vuole lanciare. Si tratta di Adelmo Fornaciari, che sarà poi noto come Zucchero. Dopo qualche resistenza iniziale, Rustici si lascia convincere. Inizia così un nuovo entusiasmante capitolo della sua storia.
L’esperienza, con i nostri occhi da osservatori, risulta molto interessante dal punto di vista produttivo: Corrado deve imporsi in maniera netta con il team di produzione di Zucchero per ottenere anche il via libera alla cura del missaggio, che in prima istanza fu curato da altri con scelte discutibili e poco coraggiose sui suoni (in sintonia con le produzioni pop nostrane di quegli anni, ma anche successive). 

Al centro Zucchero, Paul Young e Corrado Rustici. Anno 1989. (Foto di Fabrizio Gatta).

Se Zucchero ha raggiunto la fama che conosciamo, lo deve in buona parte proprio alle scelte di produzione, arrangiamento e missaggio che Rustici mise in pratica su “Rispetto” (1986), “Blues” (1987) e “Oro, incenso e birra” (1989), tutti dischi che nelle vendite raggiunsero il livello Platino. “Oro, incenso e birra” è stato per diversi anni l’album italiano più venduto al mondo.

Da allora Rustici ha prodotto numerosi altri artisti di successo italiani, tra cui Andrea Bocelli, Elisa, Pino Daniele, Claudio Baglioni, Ligabue e altri. 

Anche l’esperienza con Elisa è interessante per il lavoro di Corrado in sinergia con Caterina Caselli. Insieme mostrano grande coraggio e lungimiranza nel credere in un talento allora ancora acerbo ma che mostrava già grandi potenzialità, investendo tempo e risorse per la sua crescita. Una scommessa che oggi, come ci dirà Corrado nell’intervista, per tempi e modi con cui sta funzionando l’industria musicale, sarebbe decisamente più difficile perseguire.

A livello internazionale, Rustici ha lavorato per Clarence Clemmons, Eric Clapton, Jeff Beck, Jimmy Smith, Johnny Lee Hooker, Paul Young, Sheila E, Stevie Ray Vaughn, Stewart Copeland, tra i tanti. 

Come artista solista ha pubblicato diversi album come “The Heartist” (1995); “Deconstruction of a postmodern musician”, del 2006, con Allan Holdsworth, Steve Smith e Paul McCandless; “Blaze and Bloom – Live in Japan” (2014) in trio con Corrado alla chitarra, Steve Smith alla batteria e Peter Vettese alle tastiere e “Aham” (2016), album dalla complessità incredibile, in cui tutti i suoni, da quelli melodici a quelli percussivi, sono realizzati con la sola chitarra.

Nel 2019 vedono la luce “For the beauty of this wicked world”, una collaborazione con il chitarrista acustico Peppino D’Agostino, e l’album “Cervello – Live in Tokyo 2017”.

Del 2021 è “Interfulgent” (ad oggi il suo ultimo lavoro da solista), altro album di una certa complessità e sperimentazione chitarristica.
Attualmente risiede a Berlino dove sta continuando il suo lavoro di musicista e produttore, oltre alla collaborazione con la DV Mark per lo sviluppo di software e strumenti musicali. 

Corrado Rustici (foto di Alessandro Pepe).

Intervista a Corrado Rustici

EP: Inizio con il chiederti innanzitutto come stai, come procede il tuo ambientamento e quello della tua famiglia a Berlino? 

CR: Molto bene, grazie. Dopo quasi due anni di “reclusione” causa pandemia, sto iniziando a conoscere meglio questa bellissima città e la sua gente.

EP: In uno dei nostri primi contatti mi hai detto di essere molto impegnato in questo periodo, ci puoi anticipare qualcosa circa i progetti su cui stai lavorando? Cosa dobbiamo aspettarci dopo le intense e coraggiose avventure intraprese con “Aham” e “Interfulgent”? 

CR: Da diversi mesi sono impegnato a completare, insieme a Marco De Virgiliis (proprietario e CEO della DV Mark), la mia chitarra signature (Vimana) e il mio pedale signature (Sophia). Credo che ambedue i progetti potranno rivelarsi utili per chi abbia voglia di sperimentare con la chitarra.

Il Covid ha rallentato e complicato moltissimo la consegna di materiali e questo ha ritardato di un anno e mezzo la realizzazione di questi due progetti a cui tengo molto per diverse ragioni. Non dovrebbe mancare molto, però.
Sto anche completando la produzione dell’album di esordio del talentuoso e bravissimo chitarrista/compositore Filippo Bertipaglia.
Sabino Cannone sta sapientemente mixando i brani e devo dire che il risultato è artisticamente, e chitarristicamente, innovativo. Credo che questo lavoro sfiderà e ispirerà molti chitarristi, e non solo. Sarà pubblicato, in un formato molto interessante, nei prossimi mesi.

Inoltre, ultimamente sono uscito dalla mia voluta reclusione per produrre e arrangiare un paio di brani per un talentuoso cantautore, di cui, spero, sentirete parlare nei prossimi mesi.

Sono poi molto impegnato ad un progetto audio-visivo molto importante e veramente impegnativo di cui però non posso ancora parlare. Ma comunque – se tutto andrà  bene – credo che non passerà inosservato 🙂 . Per ora posso solo dire che sarà, artisticamente, una bella sfida per me.

Marco De Virgiliis e Corrado Rustici (dvmark.it) 

EP: Nelle tue interviste citi spesso il concetto di postmoderno e quelli, collegati, di push e pull, temi che anche noi di EP avvertiamo sempre di più come ascoltatori. Ti andrebbe di definire questi concetti per chi non ti conosce e raccontarci come pensi stiano evolvendo le cose in tal senso? Vedi qualche segnale positivo?

CR: Con l’ascesa del postmoderno, ciò che all’inizio sembrava fosse fonte di creatività senza fine – come la nobile idea che molteplici punti di vista (e relative visioni del mondo) possano essere trattati in modo equo e imparziale (pluralismo e diversità) – è diventato presto un incubo paralizzante.
Una specie di follia a-prospettica, dove regna l’insidiosa nozione che nessun punto di vista è migliore di un altro (tranne il proprio punto di vista, che è superiore) in un mondo in cui nulla dovrebbe essere affatto superiore.
La visione del mondo postmoderno implica, tra le altre cose, un soggetto che guarda sé stesso mentre cerca di guardare il mondo.
Da qui la popolarità dei social media, contesti nei quali il desiderio di apparire è diventato più importante della reale bellezza di essere.
Rapportato alla musica, ciò che una volta era una scienza basata sulla ricerca, sulla profondità emotiva e sulla diversità artistica, è diventata l’arte della superficialità. Non costruendo, ma decostruendo ed evitando contenuti per offrire invece rumore.

Oggi, aspiranti star della musica popolare sono, quasi tutti, impegnati a creare GIF musicali, facilmente riconoscibili dall’ascoltatore, il quale – a sua volta – li usa per condividere/sottolineare le proprie emozioni, sotto forma di piccoli memi musicali (non a caso l’industria discografica vede come sua salvezza la piattaforma TikTok, il che mi rende ancora più esterrefatto).

Da quando il gas della postmodernità ha iniziato a soffiare, le produzioni artistiche, come i canarini nel pozzo di una miniera culturale, stanno morendo in numero allarmante.
Con l’avvento di nuove tecnologie ci sarà – spero – una nuova generazione di cuori e di menti audaci e innovative, che faranno pieno uso del linguaggio digitale e della sua fluidità creativa, creando un artefatto rilevante che forse potrà nutrire di nuovo il cuore affamato dell’umanità. 

EP: A tuo avviso chi, come te, nel mondo musicale ha acquisito una certa consapevolezza e sensibilità, cosa può fare per dare il proprio contributo nel cercare di invertire questa tendenza? Cosa si può fare per incentivare i momenti “pull” sia dal lato di chi crea musica che da quello di chi la ascolta?

CR: Non vorrei assolutamente sembrare polemico, perché non trovo sia un’attività utile, per cui prendi questa mia analisi solo come indice del mio limitato “intendere” gli eventi che mi circondano.
Credo che la gestione del mercato della musica popolare sia in mano ad un gruppo di aziende e di personaggi che hanno come unico fine quello di arricchirsi o di arricchire i loro shareholders quanto più possibile. Vengono illusi con sogni impossibili (paragonabili a una vincita al Lotto) giovani aspiranti musicisti che si ritrovano poi ad essere spremuti e risucchiati del loro prodotto.
In questo modo, il gruppo di aziende di cui sopra, può costituire – quasi gratuitamente – un catalogo enorme per le proprie piattaforme. Ad essere premiati sono però pochissimi eletti, con promozioni e vendite irraggiungibili dal resto dei creatori di musica.  

Quello che oggi viene pubblicato dall’industria discografica è un prodotto creato da una comunità di tantissimi fabbri di note (anche molto abili), da pochi artigiani della musica e da rari artisti.
Il risultato è che, invece di poter beneficiare di un’uguaglianza di opportunità, ci ritroviamo a subire una conformità di espressione. 

Fin quando l’intento principale dietro a un lavoro artistico sarà pilotato dal miraggio della popolarità e dall’accumulo di ricchezza personale (come meta e convalida del proprio operato), purtroppo rimarremo prigionieri di un dejà vu di note e di progressioni armoniche nell’ottaedro della musica popolare.
La mia opinabile opinione è che la musica non debba essere fine a sé stessa (come centro di attenzione personale), ma debba invece essere uno strumento da usare per riportare gli ascoltatori verso la realtà della loro stessa consapevolezza (o chiamale se vuoi “Emozioni” 🙂 ).

Corrado Rustici – Anna (dall’album “Interfulgent”, del 2021).

Questo, da parte dell’artista richiede una seria gavetta, lo studio necessario per acquisire una tecnica elevata dello/gli strumento/i preferito/i e l’imprescindibile padronanza del linguaggio musicale. Questi elementi permettono di esprimere e sviluppare quanto più precisamente la scintilla creativa iniziale, senza però rimanere prigionieri della tecnica stessa. Non ci sono scorciatoie.

Nessuno scienziato usa le tabelline per descrivere i meccanismi dell’universo evitando la fisica quantica solo perché è un linguaggio difficile o non popolare. Non è giustificabile l’idea (per me fasulla) che la musica semplice venga sempre dal cuore, mentre quella più complessa, no.
Così come non può essere giustificabile continuare ad usare le stesse progressioni armoniche e linee melodiche perché limitati da lacune musicali e/o dalla pigrizia di imparare e/o di sperimentare utilizzando nuovi approcci armonici e sonori. Al di là della nostalgia, non so a cosa possa servire oggi replicare Memi musicali di 60 e più anni fa, rigurgitandoli di nuovo nella bacinella della musica popolare spacciandoli per novità.

Come l’acqua prende forma da ciò che la contiene, così la musica è determinata dalle condizioni nelle quali viene espressa e la mia grande speranza è che, con l’arrivo dell’ondata trans-moderna, le cose cambieranno. 

EP: Sei stato uno straordinario produttore che è riuscito a lavorare accanto ad artisti incredibili, molti dei quali sono riusciti a trovare una propria identità sonora anche grazie a te. Come pensi sia cambiata l’attività di produzione oggi? Le continue innovazioni tecnologiche pensi stiano incentivando la creatività? Oppure, al contrario, pensi che la semplicità di utilizzo di tali tecnologie stia portando ad una standardizzazione di suoni e proposte?

CR: Grazie davvero per le tue parole, ma non credo, assolutamente, di essere stato straordinario. Ho avuto la fortuna di lavorare con artisti dotati di incredibile talento e genialità e ho cercato di integrare il loro know-how nelle mie produzioni.

Per quanto riguarda l’attività di produzione oggi, ritengo che la musica pop sia in larghissima parte prodotta per una questione di impresa, non per arte. Non è guidata da alcuna ambizione significativa tranne il profitto e la ricompensa commerciale. In termini musicali è essenzialmente conservatrice. Le sue caratteristiche includono l’obiettivo di attrarre un pubblico generale piuttosto che una particolare sottocultura o ideologia, con un’enfasi sull’artigianato piuttosto che sulle qualità “artistiche”.

L’utilizzo di tecnologie ha senz’altro creato innovazione e facilità d’intervento. Chi ha lavorato in analogico, conosce bene l’impatto positivo – e tsunamico – che il digitale ha avuto sull’editing o sulla correzione di una performance e/o di un arrangiamento.

Ma le stesse tecnologie hanno impigrito ed incoraggiato il famigerato copia e incolla che, ahimè, ormai caratterizza il suono (sempre più povero e prevedibile) delle canzoni e della musica pop in generale. Addirittura si è data legalità al concetto di “Interpolation”, incoraggiandone l’uso come nuovo modo per rimpacchettare melodie, progressioni e spezzoni sonori già ampiamente usati.

Per l’industria, questo nuovo modo di fare musica ha facilitato la pubblicazione della stessa, tagliando enormemente i costi di produzione. Come conseguenza, le case discografiche hanno invaso il mercato con un numero quasi illimitato di canzoni, senza investire (come succedeva durante la genesi dell’industria) sul talent-scout e sullo sviluppo dell’artista stesso. 

Questo approccio ha inoltre creato l’illusoria esistenza di una improbabile democrazia di talento, insieme con la rassegnata accettazione di filastrocche musicali da parte di un pubblico sempre più disinteressato alla qualità sonora. Si è posto l’accento sulla convenienza di una tecnologia che con l’utilizzo di un semplice laptop offre (tra l’altro) la possibilità, ad un aspirante celebrità, di vivere quei famosi 15 minuti di fama. 

Ci sono ovviamente tanti altri stili musicali, molti dei quali sono liberi da imperativi commerciali e dove l’innovazione è usata per creare, invece, composizioni e sonorità nuove e lungimiranti. È in queste comunità marginali che i prossimi “veri” innovatori troveranno terreno fertile per l’impiego di nuove tecnologie, mostrando alle prossime generazioni nuove profondità dell’Arte e dello spirito umano . 

EP: Chi scrive apprezza molto Elisa, in particolare “Pipes & Flowers” (1997) e “Then Comes The Sun” (2001), gli album della discografia in cui tu figuri come produttore. Ci racconti qualcosa dell’esperienza legata al suo esordio? Sappiamo che è stata dei mesi in California per poter lavorare al tuo fianco nella definizione di suoni e arrangiamenti. Pensi che oggi siano possibili esperienze simili? Oppure c’è ormai troppa fretta che porta spesso a bruciare talenti? 

CR: L’esperienza con Elisa fu caratterizzata, sin dall’inizio, da una grande simpatia e dal desiderio di immaginare e instaurare, per lei, un percorso artisticamente credibile e rispettabile. Non credo che possa essere un’esperienza ripetibile oggi, per quello che ho detto prima, e anche perché, alle spalle del progetto, c’era Caterina Caselli che ebbe la visione e il grande coraggio di investire tempo e denaro in un nuovo talento sconosciuto, che – in quel periodo – cantava in un inglese approssimativo. Fu una grande scommessa con un risultato positivo non facilmente immaginabile da tutti.

Benny Rietveld, Steve Smith, Corrado Rustici ed Elisa nel 1996, in California, dopo la fine delle registrazioni per “Pipes & Flowers”. (Facebook)

EP: Qual è la più grande sfida che oggi un produttore deve affrontare?

CR: Se parliamo di musica e non di intrattenimento, la più grande sfida che oggi un produttore deve affrontare è quella di non confondere la visione artistica, e la validità di un’idea, con un improbabile guadagno economico. Un produttore deve avere il coraggio e la pazienza di investire il proprio tempo e la sua abilità nel creare un contributo artistico che possa arricchire la nostra cultura e non solo le proprie tasche.

EP: Ci sono produttori che apprezzi particolarmente?

CR: Per quello che mi riguarda, George Martin è stato colui che ha creato, e inventato, il ruolo del produttore discografico. 
Un visionario, grande musicista (per me il requisito fondamentale se vuoi produrre “musica” e non confezionare un prodotto) e l’inventore di tecniche di registrazione innovative, in uso ancora oggi.

EP: Tra i vari album che hai prodotto, ce n’è uno che spicca per soddisfazione personale? Un album per cui ti senti particolarmente soddisfatto e orgoglioso del risultato ottenuto e di quanto sei riuscito a valorizzare l’artista?

CR: Ce ne sono diversi, per diverse ragioni… Ma è difficile, per me, ignorare l’impatto che ha avuto “Oro, Incenso e Birra” (1989) sulla mia storia musicale e su quella di Zucchero.

Zucchero – Diavolo in Me

EP: C’è un aneddoto particolare che ancora oggi ricordi con piacere, avvenuto durante la lavorazione di un disco? 

CR: Forse un episodio per me trasformativo accadde a Londra, negli studi Trident, durante le registrazioni dell’album “Vimana” (1976), con il mio gruppo Nova.
Mentre registravo un solo di chitarra, aprii improvvisamente gli occhi e vidi John McLaughlin e il suo gruppo Shakti in regia che ballavano e battevano le mani a tempo con la musica. Misi giù la chitarra e con grande imbarazzo andai in regia, dove potei conoscere e parlare di musica con John. 

Non ho bisogno di dirti quanto fu importante per me avere questo scambio umano e musicale con uno dei più grandi musicisti del mondo, fonte di ispirazione dei miei anni formativi e con il quale ho poi avuto la fortuna di instaurare un rapporto d’amicizia.

Corrado Rustici e John McLaughlin, 2003 (Facebook).

EP: Sei stato in Inghilterra, negli Stati Uniti e ora a Berlino.
Nel nostro articolo sulle cover band abbiamo evidenziato alcune criticità che ci sembrano tipicamente italiane, come la mancanza di spazi per le band che vogliono proporre musica propria, nonché la pigrizia mentale di molti, troppi, ascoltatori che sembrano incapaci di apprezzare proposte di un certo tipo, preferendo il puro intrattenimento senza mai uscire da questa pigra comfort zone.
Guardando invece per esempio a Londra o proprio a Berlino, sembrano esserci fermenti e panorami diversi per chi vuole proporre nuove cose, e anche gli ascoltatori sembrano più predisposti a certi ascolti. 
È così? E se sì, da cosa dipende a tuo giudizio questa arretratezza nostrana?

CR: La tua domanda contiene già un’analisi precisa che condivido e alla quale non ho bisogno di aggiungere molto altro. Sia Berlino che Londra fanno parte di quell’asse speciale di centri urbani nei quali l’arte, la ribellione, la creatività e la diversità hanno trovato un terreno molto fertile. Sono ambedue città dove anche i rispettivi governi hanno un atteggiamento diverso nei confronti della cultura, della musica e dell’arte in generale. C’è più supporto – anche economico – verso chi cerca di creare, e in qualche modo di contribuire, al piatto culturale di queste città e nazioni.
Non ho vissuto in Italia per la maggior parte della mia vita, ma ho l’impressione che, in un paese dove paradossalmente la musica è sempre stata parte integrante della vita dei suoi connazionali, il lavoro del musicista non sia stato ancora riconosciuto come un importante ed essenziale tassello del patrimonio culturale ed economico e sia stato invece relegato al semplice ruolo d’intrattenimento e/o di divertimento.

EP: In un altro nostro articolo abbiamo evidenziato quella che ci sembra un’altra piaga dell’epoca che stiamo vivendo: la tendenza a produrre album con master molto compressi, spesso indicata, nelle sue estreme conseguenze, come “loudness war”. Il tutto per permettere alla musica di essere ascoltata “forte” sui cellulari e in contesti caotici. Da produttore e musicista, cosa ne pensi? Dobbiamo rassegnarci a questa tendenza?

CR: Questo è un altro aspetto e byproduct dell’abuso del “Push” e della mancanza di “Pull” nelle canzoni che vengono prodotte da qualche anno a questa parte. La quasi totale assenza di cambiamenti di volume sonoro e di progressioni armoniche ha ridotto la costruzione dinamica di un brano musicale, più o meno, alla scelta di aggiungere o togliere, in un periodo di 3 minuti, svariati elementi di un loop musicale costruito su un numero di misure non troppo lungo.
Come con le pubblicità, che invadono il programma che stiamo guardando con un volume maggiore sbraitando più fortemente il messaggio commerciale, nei mixaggi si preferisce l’uso del volume e non dell’espressione (che in ogni caso include anche volume e tono) per attrarre l’attenzione di un orecchio distratto, ma che purtroppo non fa che stancare ed intorpidire l’ascoltatore.
Al di là della convenienza e del momentaneo piacere di avere un sottofondo musicale che ci accompagni durante le nostre attività quotidiane, sarebbe forse opportuno chiedersi in che modo credibile i piccoli speakers di un cellulare o la maggior parte delle tante cuffiette economiche che si vedono in giro per il mondo possano essere usati per ascoltare veramente la musica… 

EP: Chiudiamo con un altro argomento di una certa complessità: il ruolo della chitarra oggi e – per quanto è possibile ipotizzare – nel futuro. Come altri musicisti (mi viene in mente Steven Wilson), hai più volte espresso la tua perplessità circa l’utilizzo “classico” della chitarra elettrica, con riferimento al conservatorismo dei chitarristi sul versante del suono (effettistica, uso della distorsione ecc.) e un approccio che è ormai lo stesso da decenni. La nostra domanda è: cosa ti aspetti nel futuro dello strumento? Una nuova, ulteriore evoluzione, oppure pensi che la chitarra sia ormai un’anticaglia figlia del ‘900 destinata a sparire dalle scene nel futuro prossimo venturo?

CR: Su questo argomento ho già detto tanto e forse anche troppo.
Premetto che la chitarra è uno dei miei più grandi amori, sono cresciuto con essa e continuo ad essere stupito dalle sue potenzialità e quotidianamente bastonato dalla sua difficoltà.
Ogni era ha la sua tecnologia e ogni tecnologia influenza e plasma la creazione e lo sviluppo di nuove forme d’arte. L’invenzione del pianoforte, 300 anni fa, incentrò la musica occidentale sulla tastiera. L’arrivo dell’elettricità, alla fine del diciannovesimo secolo, permise la duplicazione delle performance e, più tardi, l’amplificazione di strumenti, creando – per la prima volta – un nuovo e predominante ruolo per la chitarra, la quale, in mano a giovani artisti avventurosi, diventò artefice, e parte imprescindibile, di quel nuovo stile e genere musicale, oggi ancora genericamente conosciuto come rock.

Corrado Rustici – Night of the Jackal (dall’album “Interfulgent”, 2021)


Credo che senza un’evoluzione sonora e anche, forse soprattutto, senza la mancanza di un nuovo approccio verso lo strumento, la chitarra rischi di diventare prigioniera di uno stile musicale destinato inevitabilmente ad avere una rilevanza futura minore.
Nonostante la chitarra elettrica sia diventata simbolo di protesta e di ribellione verso il già esistente, stranamente noto un certo tipo di conservatorismo e di resistenza al cambiamento da parte del mondo chitarristico. Come se, in qualche modo, qualunque tipo di ricerca (sonora o musicale) potesse annullare la grande tradizione e i tanti capolavori musicali legati allo strumento.

Nella mia mente vedo un futuro di cuori affamati e di talenti scintillanti che – armati dalla voglia di andare oltre il manierismo chitarristico ampiamente goduto e, spesso e volentieri, anche abusato – troveranno il coraggio d’innalzarsi sulle spalle di chi li ha preceduti, integrando e trascendendo linguaggi e discipline, per comunicare ad un mondo sempre più connesso la loro nuova brillante visione artistica. Non vedo l’ora.

EP: Grazie infinite per la tua disponibilità, speriamo di incontrarci presto di persona, magari in qualche concerto dalle nostre parti! A presto!

CR: In bocca al lupo con il sito e grazie per aver pensato a me.


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